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Per la formazione dei Mmg aveva ragione la Ue...40 anni fa


10 GEN -

Gentile Direttore,
il capodanno è occasione dei bilanci e buoni propositi per il nuovo anno. Nel triennio della pandemia il dibattito pubblico sulla medicina del territorio si è sviluppato in tre fasi. Nel pieno della tempesta perfetta del 2020 gli eroi della resistenza al covid-19 sono stati ripetutamente encomiati, se non altro per la memoria dei caduti sul campo di battaglia nelle prime ondate.

Nel 2021 ai protagonisti della lotta al virus è stato riservato il banco degli imputati, facendo leva su una rodata stigmatizzazione sociale: come ha osservato Antonio Panti “da eroi a capri espiatori il passo è più breve di quanto sembri”. Archiviato l’encomio è iniziata la campagna pubblica di biasimo verso gli (immaginari) libero-professionisti, fannulloni che lavorano quindici ore e non rispondono al telefono.

Infine nel 2022 ha prevalso il mantra delle riforme - nonostante l'oblio della legge Balduzzi per un decennio – declinato in tre versioni: la ristrutturazione della rete territoriale con il DM 77, il passaggio dei convenzionati alla dipendenza e la trasformazione del Corso regionale di Formazione Specifica in una specializzazione universitaria.

Nel 2023 la Missione 6C1 è alle prese con le ristrettezze di un fondo sanitario ridotto all’osso mentre l’ipotesi della dipendenza, sponsorizzata da una composita lobby politico-sindacale, è tramontata per i contraccolpi economici della guerrae per la fragilità di un progetto privo di un solido studio di fattibilità.

E’ rimasta in piedi la terza opzione, accettata obtorto collo dai sindacati accusati di cattiva gestione del Corso regionale, ai quali sarebbe stato impropriamente “appaltato”. In base a quale quadro normativo è stato attuato il CFSMG e come dovrebbe essere riconvertito in specializzazione accademica, unanimemente considerata la panacea per i malanni del territorio?

Per rispondere a queste domande bisogna risalire alle fonti normative della Formazione in MG, vale a dire la direttiva comunitaria 457 del lontano 1986, avente 2 finalità: consentire la libera circolazione dei medici previo reciproco riconoscimento dei diplomi comprovanti la formazione in MG, una volata allineata ai criteri “minimi” dettati dalla direttiva.

Curiosamente la stessa non fa riferimento ad un corso di specializzazione universitario ma sottolinea alcune condizioni che sembrano escludere implicitamente la soluzione accademica: la formazione, della durata minima di 2 anni, deve "essere più pratica che teorica" da svolgersi in forma di tirocinio per 6 mesi presso "centri ospedalieri abilitati" e presso un "ambulatorio di medicina generale" o "in contatto con altri istituti o strutture sanitarie che si occupano di MG", senza indicazioni circa il contesto specialistico universitario.

Ma c’è di più: alcune premesse agli articoli della direttiva tracciano il quadro generale e gli obiettivi di una formazione che ha poco a che fare con il contesto accademico. Ecco i passaggi principali, che sorprendono per la loro attualità in rapporto al dibattito odierno:

Insomma il messaggio è chiaro: il neolaureato, poiché “importanti aspetti della medicina generale non possono più essere insegnati in modo soddisfacente nel quadro della formazione di base”, non è in grado di assolvere ai suoi specifici compiti, che abbia ricevuto o meno una formazione in MG nell’ambito di quella curricolare.

Serve invece un contesto formativo più pratico che teorico, in centri ospedalieri e non cliniche universitarie e soprattutto nell’ambulatorio di MG o in analoghe strutture territoriali, come le future Case ed Ospedali di comunità dal PNRR. E’ notevole constatare come quasi 40 anni or sono nella UE le idee su una formazione appropriata dei MMG fossero più appropriate rispetto alla scontata impostazione “otologica” oggi prevalente, che confida più in una etichetta accademica formale che nell’imparare facendo dall’esperienza di apprendistato socio-cognitivo del tirocinio.

Dott. Giuseppe Belleri

Ex MMG - Brescia



10 gennaio 2023
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