Gentile Direttore,
ho letto con interesse quanto scritto su Quotidiano Sanità dal Presidente della Società Italiana di Psichiatria, Emi Bondi, in occasione del 45° anniversario dalla Legge 180/78. Una analisi ampia che, non diversamente da altri contributi su questo tema, ci lascia un senso di incompiuto, con il dubbio che il tempo si sia fermato e ci si ripeta le stesse cose, senza che nulla avvenga, se non in peggio.
Giustamente Emi Bondi rivendica la grande spinta innovatrice che la Legge 180/78 ha rappresentato e i suoi imprescindibili principi culturali ed etici. Quello che sorprende però è la mancanza di una analisi della situazione attuale dei servizi, delle vistose falle create nel declinare gli aspetti organizzativi e della progressiva disattenzione nella agenda programmatoria politica (ed economica), nonostante le auliche dichiarazioni riservate ai momenti drammatici ed a quelli celebrativi. Eppure le analisi ci sono e basta leggere anche solo quanto Quotidiano Sanità ha pubblicato nel “Forum 180” per rendersi conto che certi processi non sono accidentali o incomprensibili.
Senza questa analisi le proposte formulate sono ascrivibili più al mondo dei desideri che a quello della progettazione.
In questo senso si colloca la proposta di un nuovo Progetto Obiettivo Nazionale della Salute Mentale. Dopo l’ultimo del 1999 non ne sono stati fatti altri e non per mancanza di iniziativa, ma per due importanti cambiamenti nel SSN: la modifica del Titolo V della Costituzione per cui le Regioni diventavano sovrane in materia di organizzazione sanitaria; e la aziendalizzazione ex D.L. n. 229 del 19 giugno 1999 per cui la sanità, salute mentale compresa, entrava all’interno delle logiche scandite dai LEA e dai principi di economia aziendale. Non solo ogni Regione ha potuto dare forma diversa alla psichiatra, ma si è passati da una risposta ai bisogni ad una adeguatezza ai LEA e da progetti di salute mentale a limiti di spesa in psichiatria. Un nuovo progetto obiettivo non sarebbe più vincolante dei due precedenti, già ampiamente disattesi anche senza la imminente autonomia differenziata. Non a caso il Ministero si è limitato in questi anni a sottoporre alla Conferenza delle Regioni delle linee di indirizzo molto generali.
È un po’ la stessa questione della riproposizione da parte di Emi Bondi del minimo del 5% del FSN da riservare alla salute mentale. Nonostante questo impegno da parte dei Presidenti delle Regioni nel 2001, non è mai stato realizzato se non in rare realtà. Quando poi si auspica che almeno ci sia il personale indicato degli standard dell’Agenas, su cui ho già quantificato i miei dubbi in una lettera a Quotidiano Sanità, si dimentica che questi standard sanciscono in forma definitiva che il 5% non verrà mai dato e sarebbe ora di smettere di coltivare illusioni. Per portare al 5% la salute mentale occorrerebbero 2,5 miliardi di euro annui, in una situazione in cui l’investimento nel SSN è invece destinato a scendere.
Vi è poi un divario fra le prospettive indicate e le effettive proposte. Si parla di un grande progetto preventivo, con la integrazione fra componenti sanitarie e sociali e la necessità di rivedere le politiche di welfare, ma poi la proposta consiste in campagne informative su stupefacenti, sonno ed attività fisica, non solo in genere inefficaci, ma soprattutto pallido ricordo della vocazione sociale della psichiatria. Si parla della espansione sociale del malessere e dei problemi organizzativi emersi nei DSM, ma la soluzione diventa la creazione di ambulatori e reparti specialistici, con una visione molto medicalizzata, che promette di accomodare il pezzo dimenticando l’intero, si dimentica i problemi della specificità diagnostica in psichiatria, e propone un modello chirurgico, poco compatibile con il clima culturale da cui proviene quella L.180/78 che si vuole difendere.
Il nuovo sarebbe una psichiatria che sa solo produrre “luoghi”, illudendosi di costruire così anche una specificità di patologia e di cura, senza accorgersi che la nuova cronicità è proprio transitare fra i vari luoghi del DSM come una volta si passava fra i reparti del manicomio.
Mi colpisce che non ci si domandi perché in psichiatria occorra fare un richiamo alla medicina delle evidenze, che, nonostante in altre aree sia ormai scontata, era stata criticata nel Manifesto firmato da autorevoli psichiatri nel 2021.
Allora mi viene il dubbio che il problema di fondo sia che in salute mentale non si ha nemmeno chiarezza e condivisione su quale sia l’oggetto, i mezzi ed il fine, e senza tale chiarezza condivisa è molto difficile pretendere un posto al tavolo dove le poche risorse esistenti vengono ripartite.
Come molti pazienti, anche la psichiatria fatica a prendere atto fino in fondo della propria realtà pur sapendo che solo da questo si può ripartire, e per questo accetta senza reali proteste i continui tagli e il lavorare in situazioni ormai inaccettabili, continuando a sperare sempre in Babbo Natale.
Andrea Angelozzi