Gentile Direttore,
tanti sono stati i plausi nella giornata celebrativa della figura professionale dell’infermiere. Una coralità di lodi, unanime nel riconoscere il valore, l’utilità e l’impegno dimostrato nei tanti momenti che vedono impegnata questa figura nei percorsi di costruzione di salute.
Tuttavia, l’immagine sociale che emerge, riflette un’idea di professionista legata al passato, che trova evidenza non solo nelle parole del Ministro della Salute pubblicata il giorno stesso su questo giornale, nel riconoscere “l’infermiere come una figura essenziale con elevate competenze scientifiche”, ma anche nei programmi dei diversi eventi celebrativi nel dibattere sul ruolo dell’infermiere di oggi e di domani.
L’orientamento prevalente vede impegnata la categoria nel portare a valore gli interventi, le prestazioni, le iniziative educative e le tante best practice, la cui imprescindibilità nel connotare l’agire infermieristico non è messo in discussione. È una parte importante, ma riconducibile a una delle sei fasi del processo assistenziale, quello per usare un linguaggio tassonomico, corrispondente ai NIC (Nursing intervention classification), il cui significato avulso dalla sequenza del processo di problem solving ripropone la logica mansionariale, del prestatore d’opera.
Per fortuna la gestione degli interventi non esaurisce i comportamenti attesi del ruolo infermieristico che guardano alle restanti fasi per chiamare in causa un grado di intellettualità, un pensiero, un processo decisionale, una possibilità di scegliere. Ovvero un processo di ragionamento in cui è presente un potenziale coerente e finalizzato che prende forma nei giudizi, nelle scelte dei risultati e delle attività attraverso una valutazione critica e attenta. Operazioni mentali che mettono la persona nella posizione di scegliere in modo appropriato e nello stesso cambiano gli attributi della nozione di competenza. Nell’arricchire cioè di un “potere” intellettuale il soggetto, si viene a connotare la nozione di capacità la cui articolazione in diversi livelli tra tecnicità e astrazione guida modi di essere e di agire differenti[1].
Risulta evidente come la perseveranza della condotta sugli interventi tecnico-professionali agisca un’azione limitativa, ma soprattutto in controtendenza rispetto alla traiettoria di evoluzione delle conoscenze infermieristiche sviluppata dalla filosofa americana Meleis[2].
Perfezionare e aggiornare i trattamenti equivale a mantenere la professione ferma in quello “Stadio della teoria” raggiunto già da oltre trent’anni, in uno stallo che non trovando soluzioni per riprendere il cammino rischia un’involuzione professionale. L’effetto che ne consegue è il mantenere attivo, con le proprie mani, quel paradosso già denunciato anche per la professione medica, che vede le professioni sanitarie “scientificamente avanzate, ma culturalmente inadeguate.”[3]
Così la condotta involutiva emerge svelando come l’intero sistema, dai programmi universitari alle politiche professionali nelle aziende sanitarie, sia permeato da questo orientamento e ignaro di un pensiero innovatore. È infatti la seconda parte della frase, in quell’“essere culturalmente inadeguate” che dovrebbe risvegliare interrogativi e riflessioni.
È quanto mai vero che siamo stati (e lo siamo tuttora) concentrati nei nostri tecnicismi. Nel desiderio di offrire servizi e prestazioni sempre migliori ci siamo chiusi in un “ergastolo” dei NIC e non ci siamo resi conto che il mondo fuori continuava a girare. Pensando di contribuire allo sviluppo professionale ci siamo addentrati nelle maglie organizzative le cui priorità seguendo logiche gestionali hanno contribuito a lasciare nell’indeterminatezza le riposte della nostra specificità professionale.
Quelle che rispondono alle richieste dei pazienti, ora diventati più esigenti e che da tempo ci stanno “tirandoci per la giacchetta” con l’intento di scuoterci e dirci che quello che interessa a loro, non sono più parametri legati alla morte, alla malattia, ma alla vita, alla vitalità e alla qualità della vita, portando a considerare la funzionalità, l’autonomia, l’autogestione della salute come elementi a cui dare importanza.
Ai malati interessa la capacità di vivere bene nonostante le loro condizioni di salute, ridurre al minimo la dipendenza e il carico del trattamento, partecipare ad attività significative, ridurre lo stigma, evitare la solitudine e avere un senso di controllo durante la loro vita quotidiana[4].
Questo è il mondo del Caring che guarda alla persona, all’esperienza vissuta in quegli stati di sofferenza e fragilità e che apre spazi nuovi del vivere, rimasti sempre in penombra. Oggi la professione infermieristica ha gli strumenti e la capacità per identificare quegli stati di malessere, cogliere gli attributi e le proprietà che caratterizzano le necessità esistenziale. Da questi stati l’infermiere ha le capacità per fare delle scelte e individuare ciò che interessa al malato: gradi di salute da acquisire, ovvero i risultati, quelli che il linguaggio tassonomici individua nei NOC (Nursing outcome classification).
È questo il valore richiesto in grado di rendere le professioni sanitarie “culturalmente adeguate” agendo di fatto un cambio di direzione che sblocca lo stallo evolutivo, riprendendo il cammino, in linea con le richieste presenti nello stadio successivo del modello di Meleis, ovvero di rendere visibile il valore apportato alla società.
Giuliana Morsiani
membro di NANDA-I Italian Network group
[1] Magni S.F. (2006). Etica delle capacità. Il Mulino ricerca.
[2] Manzoni E. (2016). Le radici e le foglie. CEA.
[3] Cavicchi I. (2023). La scienza impareggiabile. Castelvecchi.
[4] Coulter A. (2017). Measuring what matter to patient. BMJ 2017;356:j816 doi: 10.1136/bmj.j816