I punti deboli del rapporto Fnomceo-Censis
di Nicola Rosato
16 LUG -
Gentile Direttore,Fnomceo e Censis hanno pubblicato l’11 luglio scorso il rapporto
“Il necessario cambio di paradigma nel Servizio sanitario: stop all’aziendalizzazione e ritorno del primato della salute”. L’autorevolezza dei soggetti che l’hanno redatto autorizzava ad attendersi un’analisi dei problemi e una proposta delle soluzioni rigorosamente scientifiche. Purtroppo, l’aspettativa è stata delusa.
In verità il titolo del rapporto era già un’avvisaglia: Stop all’aziendalizzazione significa tornare alla fallimentare precedente amministrazione burocratica o cosa? E chi ha mai messo in discussione il primato della salute che si vuole ripristinare rispetto all’aziendalizzazione? L’azienda non è mai un fine, neppure nel privato. È lo strumento per produrre valore. Nel nostro caso valore salute: cioè – in sintesi – il mantenimento, il miglioramento e il recupero dello stato di salute delle singole persone e della collettività; obiettivi che corrispondono alle funzioni di prevenzione, di cura e di riabilitazione.
Il rapporto si cimenta sul tema azienda con argomentazione monocorde: i ragionieri bloccherebbero i medici. Ma il ragionamento naufraga nella banalità a discapito dei due temi dominanti: la scarsezza del finanziamento per la sanità pubblica e la disaffezione dei medici a lavorare per essa. Due questioni serie. È impossibile non riconoscere che negli ultimi anni il fondo sanitario nazionale è cresciuto meno dell’inflazione generando un definanziamento effettivo. Ugualmente impossibile negare che le retribuzioni mediche sono basse e le condizioni di lavoro appesantite dalle carenze organizzative. Ma le soluzioni che il rapporto propone sono irrealistiche.
Si sostengono tre cose: niente vincoli di budget alle decisioni mediche di qualsiasi livello (“medico senza vincoli di budget”, quindi “espansione” tendenzialmente illimitata della spesa pubblica); soltanto i medici prescrittori devono giudicare l’appropriatezza delle prestazioni che somministrano (quindi, il Ministero che rileva ogni anno milioni di prestazioni inappropriate si metta l’animo in pace) e il medico deve essere libero di prescrivere anche prestazioni che oggi non sono incluse nei livelli essenziali di assistenza (“soluzione terapeutica più appropriata anche se non coperta dal Servizio sanitario” è il logico corollario); occorrono più medici e con retribuzioni più alte, allineate alla media europea.
Su quest’ultima questione vi è una contraddizione nel rapporto, dove si riconosce che i medici in Italia sono già in numero maggiore rispetto alla media europea. Il che dovrebbe spostare l’attenzione dalla scarsità di risorse alla loro inefficiente allocazione nella rete dei servizi sanitari, ma il rapporto sorvola su questo argomento: d’altronde, afferma il rapporto, la spesa sanitaria “prescinde da sprechi”. Alleluia!
E forse, sulle basse retribuzioni la Fnomceo dovrebbe fare un esame di coscienza. Sono stati i sindacati medici, e la Federazione ha lasciato fare, a voler trasformare, contratto dopo contratto, un rapporto di lavoro altamente professionale in un rapporto di tipo impiegatizio, trovando la condiscendenza di non pochi ministri. “Chi è cagione del suo mal, pianga sé stesso”, dice l’antico proverbio, che è il modo per riprendere coscienza e dignità che tracciano la strada per aggiustare veramente le cose.
Quanto ad una libertà prescrittiva senza vincoli di budget, di controlli e di prestazioni selezionate perché essenziali, il rapporto disegna un modello di sanità pubblica unico al mondo. Il finanziamento a piè di lista che ne deriverebbe sarebbe l’illusione per gli inefficienti di non dover mai intervenire sui problemi di fondo, e penalizzerebbe invece gli efficienti che riceverebbero meno di chi spreca o sotto produce.
Il commento che più si attaglia a questa tesi ingenua lo ripeschiamo da una ormai datata drastica ammonizione di Ted Kennedy per la riforma del servizio sanitario negli Stati Uniti d’America. Per Kennedy la riforma era: “Fine della politica dell’assegno in bianco che ha permesso fino ad oggi a medici e ospedali di mettere in conto qualsiasi servizio ritenuto necessario per l’assistenza al malato. Ciò di cui abbiamo bisogno è il miglior sistema di assistenza sanitaria, non il più caro o il più dispendioso”.
Tornando a noi. Il definanziamento c’è. Ma in che misura? Negli ultimi anni gli incrementi finanziari del fondo sanitario nazionale sono stati inferiori al tasso di inflazione, che riduce i beni e servizi che si possono acquistare e genera un definanziamento effettivo. Però questo definanziamento è stato in gran parte corretto “naturalmente” dal calo demografico: la quota capitaria, cioè, è aumentata più dell’incremento globale del fondo. I numeri sono questi: il FSN tra il 2019 e il 2022 è cresciuto dell’8,37%, la quota capitaria del 9,82%, cioè circa il 17% in più.
Definanziamento dunque sì, ma non così drammatico come certi ambienti professionali e politici vogliono far apparire. E in un
precedente intervento ho anche indicato perché sia problematico il semplice confronto tra l’incidenza della spesa sanitaria sul prodotto interno lordo di modelli sanitari diversi. Nell’allarme finanziario vi sono una preoccupazione vera e una esasperazione demagogica. Così come è demagogica la demonizzazione della logica gestionale aziendale applicata agli enti del servizio sanitario nazionale. Non mancano i medici, autorevoli, che dissentono dalle proposte del rapporto.
Giuseppe Remuzzi,
ha espresso perplessità sulla fondatezza di rivendicazioni finanziarie indiscriminate e dice una cosa semplice che si ricollega al leitmotiv del rapporto Censis Fnomceo: occorre gestire la sanità pubblica come se questa fosse un’impresa vera, che – tra l’altro – sa riconoscere e remunerare in maniera differenziata il merito, ossia il talento e la produttività degli operatori. Ed ha ragione da vendere Remuzzi; finora la tanto vituperata governance aziendale, quella vera, non c’è mai stata, nonostante la legge conferisca alle Usl e agli ospedali autonomia imprenditoriale e li autorizzi a stabilire la propria organizzazione con atti di diritto privato. D’altronde una svolta imprenditoriale è necessaria per tutte le pubbliche amministrazioni italiane.
Il SSN disegnato originariamente nel 1992, è stato quasi subito smantellato dai ministri che sono subentrati a De Lorenzo: ospedali finanziati a prescindere dal risultato prodotto; primari scelti da commissioni esterne e non dal direttore generale; modelli organizzativi standard imposti alle aziende, come il numero di unità operative che Usl e Ospedali devono avere; nessuna riflessione sull’opportunità di mantenere un servizio sanitario con una varietà di funzioni multiprodotto non sempre coerenti; regole di bilancio astruse e contrarie alle norme dettate dal legislatore stesso; domanda non governata da priorità; deresponsabilizzazione dei medici di famiglia che trasformano la domanda in carichi di lavoro delle strutture anche quando le prestazioni di primo livello potrebbero eseguirle direttamente, e così via.
Sergio Harari è andato ben oltre,
mettendo in discussione l’universalismo generalizzato del SSN. Sostiene Harari che, essendo utopistico aumentare in misura importante il fondo sanitario, data la precarietà delle finanze pubbliche, bisognerebbe garantire sempre a tutti le cure per malattie importanti, e pianificare livelli di assistenza non uniformi per fasce di reddito. Altro che vincoli di budget elastici!
Con la logica del rapporto Censis Fnomceo non si fanno passi avanti per rimettere in carreggiata il SSN. Si sventolano manifesti di rivendicazioni sindacali, legittime ma da inquadrare in un sistema gestionale organico. E se qualcuno prendesse sul serio il rapporto si farebbero passi indietro.
Le linee da seguire per evitare il collasso del servizio sanitario sono di ben altro spessore. Spostare risorse da altri campi alla sanità implica una rimodulazione del welfare; il modello organizzativo deve superare la dualità tra territorio e ospedale, come
suggerisce Francesco Cognetti , realizzando “un unico sistema di servizi continuo e complementare in cui prevalga l’idea di ospedale esteso al territorio”. Bisogna poi che la politica scelga manager, siano essi medici o di altre professioni di base, formati da severi studi e dotati di specifiche competenze e non designati per investitura sulla base di titoli formali e presto delegittimati nel contesto aziendale. Serve che gli enti sanitari riacquistino l’autonomia imprenditoriale nel quadro della programmazione nazionale che non c’è più; serve la responsabilizzazione degli utenti e dei loro agenti nell’uso appropriato ed efficiente delle risorse.
Riforma non deve essere una parola passe-partout, ma un rigoroso disegno di equità e sostenibilità.
Nicola RosatoAnalista economico della pubblica amministrazione
16 luglio 2024
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