Gli psichiatri: vittime o avversari della psichiatria?
di Alberto Sbardella
22 APR -
Gentile Direttore,sembra paradossale, ad una prima e distratta lettura, che nel titolo ci possa essere una sorta di spiegazione (o perlomeno un tentativo di) sulla crisi lenta e inarrestabile della disciplina psichiatrica.
Essere provocatoriamente indicati come nemici di se stessi, non è certo cosa gradita e sana, ma ahimè, questo accade e può accadere anche per chi dovrebbe sulla carta ri-conoscere le dinamiche auto aggressive che possono condurre il singolo e/o l'intera (o quasi) categoria, verso una crisi profonda, senza poter intravedere ad oggi, possibili soluzioni o quantomeno parziali ma sostanziali inversioni di rotta.
Eppure sulla carta, chi dovrebbe per l'appunto possedere gli strumenti di analisi e decodifica di ciò che accade intorno e dentro il proprio campo di azione, sono proprio loro (noi), gli psichiatri.
Non starò certo qui ad elencare ipotesi sul perché ciò accade. Ma, ritengo quantomeno utile provare a riflettere sulla eventuale veridicità della mia affermazione. Lungi da letture qualunquistiche, ideologiche o peggio ancora, credo che stia sotto gli occhi di tutti quale sia lo stato dell'arte e delle cose.
Che posto occupa la psichiatria all’interno della medicina? Quali rapporti con le discipline affini, quali la psicologia, la psicoanalisi e tutto il variegato mondo delle psicoterapie? Con la neurologia e le neuroscienze? E mi fermo qui per non sconfinare in territori limitrofi ma che ci farebbero perdere la rotta e allontanare dal senso della nostra riflessione (vedi la filosofia).
Intanto anche solo facendo una distinzione tra diagnosi categoriali e dimensionali, ci si propone la prima dicotomia. Si dirà che questa può essere letta come una ricchezza, la lettura incrociata tra DSM5 e psicopatologia fenomenologica. Potrebbe. Ma più di frequente è terreno di scontro più che di incontro tra colleghi. Anche nella stessa nosografia categoriale, abbiamo almeno due sistemi categoriali: il DSM5 e ICD11. Si possono comparare e integrare, è vero, ma già questo un po' di confusione lo crea.
Poi, passando alle letture e interpretazioni dimensionali, si entra nel mondo dove tutto è possibile o quasi! Molteplici sfaccettature esegetiche, si affacciano come possibili corrette letture dell'essere e teorie della mente sull'agire umano.
Ne consegue che a seconda dell'una o dell'altra ipotesi diagnostica, ne deriverà una proposta di cura. Farmacologica, psicoterapeuta, sociale, abitativa, etc. Sulla carta auspicabilmente integrabili, ma non sempre questo accade nei fatti.
Linee guida nazionali e internazionali, protocolli, prassi consolidate, diverse letture del funzionamento della mente umana, assetti personali e "politico-ideologici", e tanto ancora, faranno poi la differenza e il paziente (colui che soffre e chiede aiuto) si ritroverà a sua insaputa, ad essere inserito in un percorso che può variare da regione a regione e spesso anche da quartiere a quartiere delle grandi città. Ci sono altre specialità mediche o chirurgiche che propongono una tale varietà e molteplicità di possibili approcci alla soluzione del problema? (Domanda retorica). Certo, si dirà che la psichiatria è altra cosa. Ma proprio questo essere "altro" rischia di determinare più stigma di quello che vorrebbe invece eliminare.
Se poi tutto ciò lo applichiamo allo scivoloso terreno del paziente psichiatrico autore di reato, si ha l'impressione che il banco salti rapidamente. Il famigerato folle-reo, è oggetto di estenuanti teorizzazioni, circa il come considerarlo, tenendo conto dell'attuale legislazione vigente. Gli art. 88 e 89 del CPP, normano tale condizione ma il problema è la modalità di applicazione della totale e/o parziale capacità di intendere e/o volere al momento in cui ha commesso il reato. Terreno scivolosissimo per tutti. Mantenere entrambi gli articoli? Solo uno? Abolirli entrambi? Che altro?
E una volta fatta la scelta e presa la decisione con sentenza del magistrato, come e dove applicarla? Carcere? REMS? CSM? Comunità terapeutiche? Altre strutture ad hoc ipotizzate? E ancora...quale ruolo spetta allo psichiatra, che ricordiamocelo, mantiene la posizione di garanzia h 24 nei confronti di eventuali agiti violenti verso se stesso o altri? La pericolosità abolita (in realtà rimossa!) dalla 180 poi 833, esce dalla finestra ma rientra dalla porta principale!
Gli psichiatri, "forti" della legge negano di doversi occupare del soggetto pericoloso per sé e/o per gli altri, ma poi non sanno che fare. Giustamente non siamo i tutori dell'ordine e della sicurezza, ma la legge ci incastra comunque, perché ci dà indicazioni di contenere e controllare (vogliamo dire gestire?) la pericolosità del soggetto, sia che stazioni a casa sua, in comunità, in REMS e perfino in carcere. Perfetto! Come se ne esce? O ci si paralizza stile freezing o si diventa campioni di slalom. E sulla testa, la spada di Damocle dell'avviso di garanzia. Quindi, cosa ne pensano i colleghi? Cosa possiamo dire per far sentire la nostra voce e cercare di incidere sulle prassi quotidiane? Abbiamo una società italiana, tavoli tecnici e gruppi di lavoro per cercare di coinvolgere politici, sperando in un coinvolgimento volto a fare proposte di cambiamento e modifiche, al fine di provare a trovare una "quadra" e giungere ad un reale miglioramento della qualità delle prestazioni, sia per i pazienti che per noi operatori psichiatri. Non è un lavoro semplice, anzi, tutt'altro. Ma abbiamo l'obbligo morale e professionale di provarci. Restare "zitti e buoni" non paga. Mai.
Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna.
In un modo o nell'altro, bisogna fare qualcosa. Improcrastinabilmente.
Alberto Sbardella Psichiatra
22 aprile 2025
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