Gentile direttore,
non è la prima volta che la Corte costituzionale, in materia sanitaria, ci sorprende con una pronuncia di legittimità di una norma regionale impugnata dal Governo perché ritenuta eccedente le proprie competenze statutarie e violativa di quella statale in materia di ordinamento civile. Eppure, leggendone le motivazioni, non ci sembra poi così peregrina come decisione. Questa è stata la volta della legge regionale della Sardegna n. 12 del 2024, sul rientro in servizio dei medici in pensione.
La disposizione incriminata è l’inserimento del co. 2-ter nell'articolo 1 della legge della Regione Sardegna n. 5 del 2023, impugnata nella parte in cui ha disposto che, sino al 31 dicembre 2024, i medici di medicina generale in quiescenza possono aderire, anche con contratti libero professionali, ai progetti di assistenza primaria e continuità assistenziale attivati dalle ASL, per assicurare la completa copertura delle cure primarie nelle aree disagiate, e di disporre dei ricettari.
Il Governo, nell'impugnare detta legge, ha ritenuto che la Regione autonoma della Sardegna avrebbe ecceduto le proprie competenze statutarie e avrebbe violato quella statale in materia di ordinamento civile per il rilevato contrasto con l’Accordo Collettivo Nazionale del 2024 (e precisamente l’art. 21, co. 1, lettera j) secondo il quale è incompatibile con lo svolgimento delle attività in esso previste, il medico che fruisca di trattamento di quiescenza come disciplinato dalla normativa vigente.
Secondo la Consulta, invece, è legittimo l’operato delle Regioni perché finalizzato ad arginare le criticità delle aree disagiate.
E, se tanto può essere posto in essere con un richiamo temporaneo del personale medico in quiescenza che consente, così, di far fronte alla carenza di personale, ben venga, perché soddisfa un interesse collettivo che è, poi, lo scopo che le Istituzioni preposte sono chiamate ad assicurare.
Quindi, la Corte, pur riconoscendo che la negoziazione collettiva e la vincolatività delle prescrizioni dell'ACN sono volte ad assicurare la necessaria uniformità regolatoria del rapporto di lavoro convenzionale dei medici di medicina generale e finalizzata all'omogenea fruizione dei LEAP sull'intero territorio nazionale che la medicina convenzionale deve erogare, ha ritenuto che non si possa precludere alle Regioni di adottare misure organizzative straordinarie, com’è il richiamo temporaneo così statuito.
Perché, se così non fosse, gli effetti secondari o riflessi sul convenzionamento si tradurrebbero in un impedimento per le Regioni di intervenire con propri strumenti per evitare che tali contingenti criticità determinino il sacrificio dell’effettività del fondamentale diritto alla salute, privandolo del nucleo invalicabile di garanzie minime.
D’altronde, come evidenziato dalla Regione nelle proprie difese, è proprio a questa esigenza che risponderebbe la disposizione impugnata che, approntando misure straordinarie a salvaguardia di un diritto costituzionalmente garantito, esplicherebbe una prevalente finalità organizzativa, in funzione attuativa dell’art. 32 Cost., tale da escludere la violazione dedotta dalla Presidenza del Consiglio con il proposto ricorso.
In buona sostanza, il principio di diritto posto dalla Corte si può così compendiare: la disposizione regionale impugnata, cercando di assicurare l'assistenza primaria ai cittadini residenti in zone disagiate e sprovviste del medico di medicina generale, esprime una finalità organizzativa, in funzione della tutela della salute, ed è pertanto legittimo l’esercizio delle proprie competenze in tale materia.
D’altronde la Regione Sardegna non sarebbe nuova a provvedimenti di tal fatta, atteso che già nel 2023 aveva intrapreso una serie di azioni volte a fronteggiare dette criticità, prima aumentando temporaneamente, su base volontaria, il massimale dei medici di medicina generale operanti in sedi disagiate e successivamente, a causa della scarsa adesione, destinando risorse alle ASL, per finanziare progetti aziendali volti a rafforzare l’assistenza primaria e la continuità assistenziale, incentivando prioritariamente proprio i medici di medicina generale.
Aveva, cioè, integrato con i c.d. ASCOT, ovvero i progetti di Ambulatori straordinari di comunità territoriale, l’assistenza primaria nelle aree carenti, in attesa dell’assegnazione delle sedi vacanti secondo quanto previsto dall’ACN, assicurando agli utenti privi di medico di medicina generale le prestazioni ordinarie di loro competenza, quali prescrizioni, visite, rinnovo di piani terapeutici, attivazione di assistenza domiciliare e certificazioni di malattia, in considerazione dell’elevato numero di sedi risultate prive di copertura (ben 527 su 1427) che avrebbe lasciato oltre mezzo milione di persone senza assistenza alcuna a causa, proprio degli esiti negativi delle procedure concorsuali per l’assegnazione delle sedi vacanti.
La ritenuta violazione dell’art. 32 della Costituzione in caso di mancata erogazione dei LEA, ha portato la Corte a considerare non fondato il ricorso del Governo, posto che in presenza di un comportamento inerziale dello Stato nell’affrontare tali criticità, le regioni avrebbero il dovere di adottare misure organizzative idonee a tutelare il diritto alla salute di chi non ha accesso ai LEA.
Ed è quanto ha riconosciuto aver fatto l’impugnata disposizione regionale approntando le contestate misure straordinarie a salvaguardia di un diritto costituzionalmente garantito.
Prima di procedere all’esame nel merito della questione promossa, la Corte ha precisato che a guidare nella risoluzione della questione posta è l’identificazione dell’interesse tutelato, secondo il cosiddetto criterio di prevalenza – individuato nel non lasciare sacche della popolazione senza assistenza alcuna – e, in applicazione di tale criterio, ha quindi escluso la dedotta violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, quando le impugnate disposizioni regionali, pur afferenti a profili del rapporto in convenzione dei medici di medicina generale, siano dettate in via prioritaria da esigenze organizzative, producendo effetti solo secondari sull’andamento dei rapporti convenzionali.
Nel richiamare, poi, proprie precedenti pronunce specifiche in materia ove ha chiarito che la disciplina del rapporto in convenzione dei medici dell’assistenza primaria deve necessariamente confrontarsi con gli effetti che essa produce nei confronti del diritto dei cittadini alla tutela della salute, in attuazione dell’art. 32 Cost., ha ritenuto non fondata la questione sollevata dal Governo centrale del quale non ha intaccato la competenza legislativa in materia di ordinamento civile, avendo la disposizione impugnata chiaramente una ratio organizzativa, in funzione della tutela della salute, cercando di assicurare l’assistenza primaria ai cittadini residenti in zone disagiate e sprovviste del medico di medicina generale.
Ma già dalla corretta lettura dell’articolo incriminato era facilmente evincibile la finalità perseguita dal legislatore regionale, atteso che vi si legge che lo “scopo” è quello “di garantire uniformi livelli essenziali di assistenza nel territorio”, con “la prioritaria finalità di individuare misure organizzative atte ad assicurare l’assistenza sanitaria di base ai cittadini di aree disagiate della Regione”.
La disciplina regionale si configura, quindi secondo la Corte, “come un rimedio organizzativo straordinario finalizzato a assicurare la completa copertura delle cure primarie, altrimenti pregiudicato dalla assenza nelle aree più disagiate di medici delle cure primarie”, proprio come da relativa delibera della Giunta regionale.
Già tanto bastava a ritenere insussistente il denunciato contrasto tra l’art. 21, comma 1, lettera j), dell’ACN e la norma regionale impugnata, la quale non è stata ritenuta neppure elusiva della disciplina della medicina generale, considerata nel suo complesso in quanto non consente ai medici di medicina generale in quiescenza di rientrare nei ruoli dell’assistenza primaria e, di conseguenza, non dispone né la possibilità di assegnazione di sedi vacanti, né l’applicazione della vasta gamma di diritti e obblighi previsti dall’ACN, ma si limita a legittimare le ASL a instaurare, sino al 31 dicembre 2024, anche con tali soggetti, un rapporto libero professionale, al solo fine di farli operare nell’ambito dei progetti ASCOT e di assicurare le prestazioni da questi erogate ai pazienti degli ambiti territoriali a essi riferibili.
La disciplina regionale contestata è, allora, da considerare una risposta all’impossibilità di ricorrere ai medici di medicina generale regolarmente in convenzione per assicurare le prestazioni “essenziali” riconducibili a tali ambiti di assistenza, necessarie a garantire “la qualità e l’indefettibilità del servizio, ogniqualvolta un individuo dimorante sul territorio regionale si trovi in condizioni di bisogno rispetto alla salute”, come già anticipato dalla stessa Corte in precedenti occasioni.
Tanto premesso, in piena sintonia di norme e pronunce giurisprudenziali, ha ritenuto la Corte che non si potesse non ribadire che rientra nella “responsabilità organizzativa dell’ente territoriale” l’adozione di misure volte a dare risposta a situazioni di accertata criticità nella fruizione dei LEAP, al fine di assicurare l’effettivo godimento del diritto alla salute.
Queste, in grande operazione di sintesi, le ragioni che hanno portato la Corte a ritenere che la disposizione regionale impugnata, per la sua finalità e per i suoi intrinseci contenuti, debba essere ricondotta alla competenza legislativa della Regione autonoma della Sardegna nella materia “tutela della salute”, in riferimento ai profili organizzativi dell’assistenza primaria e, conseguentemente, a stimare come non fondata la censura relativa alla lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia “ordinamento civile”.
Fernanda Fraioli