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Eccellenza e appropriatezza in sanità. Se la retorica del linguaggio la fa da padrone

di Andrea Tamarin

21 MAG -  Gentile direttore,
intervengo con un contributo sul tema dell’eccellenza. In effetti, credo che l’argomento sia strettamente correlato ad altri aspetti, già approfonditi da questo giornale, sulla crisi che attraversa il nostro SSN. Direi che il termine  “eccellenza” ricorda la polisemia aziedalismo/dirigismo/economicismo. Si è sviluppato infatti negli anni un linguaggio retorico finalizzato a lusingare gli operatori sanitari ed a rassicurare i cittadini sul buon governo della sanità.

Le parole del “buon governo della sanità” non sono poi molte ma, combinate tra loro danno origine a una forma retorica che, per quanto noiosa, è abbastanza ricca. Le parole del buon governo della sanità, come una poesia del Carducci, sono spesso declamate a memoria con un tono piatto e vuoto. Sono parole che lasciano dietro si sé tutta la distanza che divide e separa, oggi, la sanità dalla medicina. L’eccellenza è una parola chiave nel linguaggio del buon governo della sanità e si innesta in un'altra polisemia che è eccellenza/appropriatezza. Con questa polisemia, in un modo o nell’altro, si vorrebbe garantire ai cittadini un diritto alla salute inteso come “diritto alla cura perfetta”.  La medicina che, per sir William Osler, “è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità” è (o dovrebbe essere) qualcosa che tende alla perfezione. E’ come se, proprio per mezzo di questo linguaggio, venisse a mancare quella fondamentale distinzione che Platone poneva tra “le idee” e “le verità”. Ci si occupa delle idee, entità che Platone metteva nell’iperuranio, tralasciando completamente il mondo delle cose e delle verità protagora della medicina. Siamo quindi di fronte ad una falsificazione retorica della medicina e della realtà che genera spesso aspettative illusorie e una cultura della recriminazione e dell’indennizzo . 
Ho imparato che le parole sono importanti e che, qualora si voglia fare un qualsivoglia ragionamento, si debba farlo sempre discendere dai principi fondamentali del nostro SSN. Certo ci vuole una buona dose di umiltà per mettere in discussione i principi del SSN. Eppure c’è una parola/principio che è anche una parola/simbolo perché rappresenta la perfetta metafora di tutte le politiche sanitarie. La parola/principio cui faccio riferimento è la parola “appropriatezza” che, come accennato, è fortemente legata al termine eccellenza. Direi che tale parola/principio sia una parola chiave. Si provi pensare, ad esempio, a tutte le volte che compare nei diversi provvedimenti legislativi, nei documenti ministeriali, nel linguaggio dei politici. Ed è altrettanto chiaro che questa parola, con il suo significato di opportuno, confacente, proprio, adeguato è una dimensione che si rivolge al mondo delle idee (cioè all’iperuranio di Platone) piuttosto che al mondo delle cose ed alle verità della medicina. I manuali di Igiene ne danno un significato fumoso: “la prestazione “giusta”, al paziente “giusto”, nel posto “giusto”, al momento “giusto”, eccetera, eccetera. C’è quindi un anelito, una tensione, una predisposizione d’animo che dovrebbe ispirare chiunque operi all’interno del SSN. Un’aspirazione, non c’è che dire, che assomiglia molto a un concetto di “perfezione nella frugalità” che, qualora si vesta di complessità tecnologica, è definita, per l’appunto, come “eccellenza”. La domanda dovrebbe essere quindi essere la seguente: cosa c’è di eccezionale nel minimalismo?

L’appropriatezza è una parola che si veste di aspettative e chiunque non può non condividerla. Quale migliore parola per esprimere le aspettative di un paziente che, quando immagina la complessità di un trapianto di fegato o i rischi associati alla legatura di un’emorroide, suppone, con la stessa identica fiducia, di ricevere dal SSN qualcosa che non sia, ne più ne meno, che il “giusto”?  L’appropriatezza è una parola asintotica perché è una sorta di funzione matematica che tende all’infinito. Si è sempre in difetto perché il margine di miglioramento è infinito e si può sempre migliorare anche quando si è bravi. Per approfondire il concetto di appropriatezza bisogna anche far riferimento al suo contrario che, nel linguaggio politico, è il termine “spreco”. Dove non c’è appropriatezza, c’è spreco. Dove non c’è perfezione (o eccellenza) c’è spreco e, lo spreco, si sa, ha un implicito significato di condanna e di colpa. A sprecare, poi, naturalmente, sono sempre gli altri. La parola appropriatezza è una parola autarchica. Non esiste infatti nella terminologia utilizzata nei documenti di politica sanitaria di altri paesi. Forse, proprio per questo implicito significato di “scelta impropria” con un consumo eccessivo di risorse rispetto all’obiettivo, pure col rischio di sembrare ingenuamente scolastico, direi che il termine appropriatezza potrebbe richiamare il concetto di costo-opportunità e ciò è riconducibile all’idea che in ogni scelta ci sono sempre dai benefici perduti perché le risorse utilizzate per un dato paziente non possono essere riutilizzate per un altro. In altri paesi, verrebbe da dire in tutti gli altri paesi, il termine appropriatezza è tradotto con “cost-effectiveness” e cioè il rapporto tra il costo e l’efficacia (quella concreta del mondo reale) di una prestazione sanitaria. Mentre l’appropriatezza è una raccomandazione generica che, inserita in linee guida, nei prontuari farmaceutici, nei percorsi diagnostico terapeutici non determina alcun risultato, il rapporto di costo-efficacia è un numero che definisce la differenza nella convenienza economica nel raggiungimento di uno stesso risultato.

Sono convinto che nulla di ciò che è principio e sostanza delle discipline economiche sia mai stato fino ad oggi mai lontanamente applicato nel nostro SSN. Direi che c’è una bella differenza tra economicismo ed economia sanitaria, come pure c’è una grande differenza tra la minimizzazione dei costi e l’analisi marginale. Mentre la prima equivale al puro “risparmio”, l’analisi marginale corrisponde alla “capacità di scelta” perché quantifica l’incremento di costo e lo rapporta con l’incremento di risultato preservando risorse per gli interventi di eccellenza. 

Per non cadere nella vaghezza delle questioni semantiche bisogna pure fare anche degli esempi concreti. Si pensi, ad esempio, al farmaco che è la prestazione quantitativamente e più diffusamente fornita dal SSN.  Tetti, autoriduzioni di prezzo, gare sono gli strumenti utilizzati.  Sono questi strumenti generici, centralistici, unilaterali. Tutti strumenti che si rifanno al principio dell’appropriatezza. Ci si potrebbe chiedere: cosa facciamo dei dati presenti in tutti i registri nazionali sui farmaci ad alto costo? Perché li raccogliamo? E’ possibile, fare una valutazione economica, indipendente e trasparente, lontana dal marketing dell’industria per fare delle scelte concrete sulla reale innovazione? Sono in molti che, quando pensano al NICE inglese, si chiedono: “Ma perché nel nostro paese non è possibile fare altrettanto?” Perché mai AIFA è così contraria alla farmacoeconomia?
Credo sia necessario introdurre un nuovo paradigma, una razionalità semplice, un metodo che sia contemporaneamente trasversale, top-down e bottom-up, fungibile dalla politica tanto quanto dagli operatori sanitari e dai cittadini. Sono convinto che il tema del marginalismo economico non sarà sufficiente a risolvere i problemi di fondo del nostro SSN. Tuttavia, come spesso si dice in medicina, male non fa e, talora, aiuta…
 

Andrea Tramarin
Medico ed Economista sanitario 

21 maggio 2013
© Riproduzione riservata

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