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La solitudine del Medico

di M.Christina Cox (Anaao Assomed)

04 MAR - Gentile direttore,
quasi sempre condivido le lucide e accorate analisi di Ivan Cavicchi, che provvidamente pungola noi medici e i nostri sindacati a essere protagonisti del cambiamento in sanità. I medici del sistema sanitario oggi soffrono di un crescente disagio perché si sentono schiacciati in uno spazio via, via piu’ angusto. Siamo compressi dall’alto da un apparato burocratico che sentiamo estraneo e spesso opprimente e dal basso dalle crescenti problematiche socio-sanitarie dei nostri pazienti

Ormai da diversi anni fare il medico non significa più “solamente” impegnarsi al massimo per curare i pazienti ma richiede invece e sempre di più di: conoscere e applicare leggi e regolamenti decisi da chi non fa il nostro lavoro, spendere moltissimo del nostro tempo per la burocrazia sanitaria per la cui trasgressione siamo perseguibili, essere consapevoli dell’impatto economico delle cure e delle indagini che prescriviamo , essere quotidianamente esposti a denunce e richieste di risarcimento, impegnarsi affinchè i “nostri pazienti” possano effettuare le indagini cliniche nella sanità pubblica , supplire alla grave carenza non solo di medici ma anche di infermieri e amministrativi.

La nobiltà di fare il Medico risiede nel fatto di svolgere un’attività intellettuale ma che trae la sua principale motivazione dall’ essere utile agli altri esseri umani. Per questa impagabile gratificazione siamo disposti ad un illimitato investimento intellettuale ed emotivo . Nessun altro professionista fa un corso di studi cosi’ lungo e impegnativo per poi dover continuare a studiare tutta la vita , fa un lavoro che per definizione non conosce festività o distingue la notte dal giorno, combatte in prima linea contro la malattia, il disagio umano e sociale ed è a quotidiano contatto con la morte.

Perché da un lato siamo così intimamente fieri del nostro lavoro e contemporaneamente cosi’ poco attivi nel difenderlo? Perchè i sindacati che ci rappresentano ci sembrano così poco propositivi? Perché abbiamo consentito che negli anni il nostro ruolo venisse così improvvidamente destituito di potere decisionale nella gestione e organizzazione del nostro stesso lavoro? Credo che i motivi di questa abdicazione siano molteplici

In primo luogo noi medici non percepiamo di appartenere ad una sola categoria perché siamo suddivisi in tanti microcosmi professionali: chirurghi plastici, anestesisti, oncologi, medici legali, endoscopisti, psichiatri, dermatologi, medici di famiglia, etc. Inoltre la professione del medico per sua natura e storia comporta un rapporto di fiducia individuale con il paziente. In Italia il forte attaccamento a questa visione tradizionale del lavoro del medico, l’arretratezza dei modelli organizzativi e in diversi casi la scelta di figure apicali inadeguate al ruolo di team-leader, fanno si che in ambiti complessi come il sistema sanitario e l’ospedale l’interazione ambientale e la coesione tra i professionisti siano ancora molto bassi.

A tutto cio si aggiunga che la pletora medica che è avvenuta nel nostro paese tra gli anni 70 e i 90 ha determinato un precariato epidemico e una cultura della subalternità. Per molti la conquista “del posto fisso” non è stata percepita come il naturale sbocco di un corso di studi impegnativo e lunghissimo, ma come una fortuita concessione ad personam. D’altro canto i medici 30-40enni, a mio avviso molto più consapevoli e determinati devono impegnare la maggior parte delle loro energie a fronteggiare un nuovo precariato che rende purtroppo ancora molto fragile il loro ruolo.

Tutto questo contribuisce, a mio avviso in modo determinante a rallentare quella coesione e attivazione collettiva, necessaria affinchè i medici e i loro rappresentanti riescano a pensare, condividere e proporre quelle innovazioni che solo i professionisti sul campo possono individuare e validare.
Oggi che nel bene o nel male i Baroni della Medicina non ci sono più, il dirigente medico ospedaliero scopre di essere molto solo nel contesto “aziendale” dove il suo ruolo è molto più vicino ad un “prestatore d’opera” che ad un dirigente. Quando insorgono problemi lavorativi o relazionali, oggi sempre più frequenti, difficilmente trova tra i burocrati che dirigono l’azienda degli interlocutori motivati ad ascoltarli e a prendersi della responsabilità per risolvere i problemi.

I sindacati medici sono rappresentativi della frammentazione della categoria e di quella estraneità del medico Italiano rispetto alla cultura sindacale intesa come appartenenza ad un gruppo strutturato che condivide problematiche e obbiettivi di una categoria e che vuole partecipare con determinazione al governo del sistema sanitario nell’interesse dei pazienti di cui, insieme al personale sanitario è il principale interlocutore. In paesi come la Germania e l’Olanda, i professionisti della sanità hanno un ruolo determinante nella gestione dell’ospedale: lo stesso direttore sanitario è un medico eletto tra i medici ed è quindi un loro diretto rappresentante.

Credo che noi medici non possiamo più limitarci alla lamentela, dobbiamo invece uscire dal nostro isolamento per affrontare insieme la soluzione della “Questione Medica” impegnandoci non solo nel nostro lavoro ma anche ad influire sulle scelte di politica sanitaria con gli strumenti che sono a nostra disposizione. il sindacato, è per definizione lo strumento più importante e funzionale , ma lo è solo se è partecipato e nutrito dai nostri contributi. Diversamente il sindacato può diventare una scatola vuota che difende lo status quo o si presta ad interessi individuali o di piccoli gruppi.

I fattori economici inevitabilmente influiscono e condizionano anche la medicina e il medico non puo’ pensare di essere esonerato da questa responsabilità. È a mio avviso un suo preciso dovere conoscere e valutare il rapporto costo/utilità e scegliere oculatamente basandosi sui dati della medicina dell’evidenza da un lato e dall’altro valutando caso per caso in base al singolo paziente. Nuovi strumenti dovrebbero consentire nei prossimi anni una “medicina di precisione” supportando in modo sempre piu’ scientifico le scelte dei professionisti. Nel frattempo ritengo, come molto ben esplicitato dal prof. Cavicchi, che far delimitare da altri i confini delle scelte diagnostico-terapeutiche del medico nel singolo paziente, sia un metodo oscurantista. Credo che possano essere pensati altri strumenti per verificare e stimolare l’appropriatezza.
 
Su questo come su altri temi che definiscono come dobbiamo svolgere il nostro lavoro dobbiamo impegnarci molto di più ad incidere nel flusso delle decisioni, pena la progressiva demotivazione a svolgere una professione che ha nella libertà di pensiero e nell’autonomia una sua fondamentale ragione di essere.

M. Christina Cox
Membro del Centro Studi e Servizi ANAAO-ASSOMED Lazio 

04 marzo 2016
© Riproduzione riservata

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