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Responsabilità professionale. Problemi risolti solo sulla carta?

di Francesco Lauri

06 NOV - Gentile direttore,
sono, e non potrei non essere, soddisfatto dall’intento principale della futura legge, ossia quello di garantire al singolo operatore sanitario maggiore serenità nell’espletamento della propria attività, mediante l’applicazione di una disciplina che demandi al rispetto delle linee guida (o delle “buone pratiche clinico-assistenziali”) il criterio di accertamento delle responsabilità.

Il punto è che, more solito, ci troviamo di fronte all’ennesimo tentativo di risolvere i problemi “sulla carta”, senza preoccuparsi di ciò che accade, quotidianamente nella realtà dei Tribunali italiani.

Tralasciando il fatto che Il concetto di “buone pratiche clinico-assistenziali” è talmente vago da richiedere uno sforzo interpretativo che si sarebbe potuto evitare - visto che da lustri si attende una legge che, per l'appunto, avrebbe dovuto superare le differenze di vedute giurisprudenziali -, l’aspetto che maggiormente mi preoccupa è quello di natura processuale introdotto dall’art 8 relativo al tentativo obbligatorio di conciliazione.

Fermo restando il plauso per la decisione di eliminare lo strumento più inutile del secolo in materia di contenzioso cittadino/medico (la mediazione), da anni vado ripetendo che il procedimento ex art 696bis cpc – consulenza preventiva ai fini conciliativi – è una magnifica occasione mancata. Chiunque si occupi di responsabilità professionale medica, sa quanto dirimente sia la CTU nel quadro di un contenzioso incentrato sull’accertamento del nesso causale tra condotta e danno conseguenza.

Direi che l’80% dei procedimenti aventi ad oggetto l’asserita responsabilità del medico, si definisce, infatti, sulla scorta di una consulenza che ne accerti la sussistenza.

Ma vi è un altro 20% che necessita di un’istruttoria più ampia.

Penso al caso tutt’altro che infrequente di “culpa in vigilando”: un paziente psichiatrico lasciato a se stesso che si getta da una finestra, ad esempio. Come poter accertare la responsabilità di una struttura senza valutare, per lo più tramite testimoni, la correttezza della condotta degli operatori?

Il ctu potrà dire “la morte è dipesa dall’impatto del corpo al suolo”, ma non potrà valutare – se non opportunamente investito di poteri istruttori – se l’infermiere x o il medico Y fossero o meno vigili.

L’esperienza insegna, come di fronte ad una CTU che accerti il nesso tralasciando altri aspetti altrettanto importanti – come la condotta del medico e/o del danneggiato – le possibilità che una struttura sanitaria (o compagnia di assicurazioni) decida di transigere sono minime, obbligando il cittadino ad intraprendere cause lunghe e costose, che un novellato art. 696 bis ben potrebbe evitare.

Ed allora, il vulnus va colmato mediante la riscrittura dell’art 696 bis ovvero la creazione di uno strumento processuale agile (ad esempio un procedimento a cognizione sommaria incentrato sulla consulenza tecnica d’ufficio) che permetta il raggiungimento di intese risarcitorie soddisfacenti per entrambe le controparti e che consenta, a chi ha subito danni da accertate responsabilità mediche, un giusto (e rapido) ristoro.
 
Avv. Francesco Lauri
Presidente Osservatorio Sanità

06 novembre 2016
© Riproduzione riservata

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