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Il sogno del dottore ai tempi del burnout

di Gemma Brandi

06 GEN - Gentile Direttore,
alla sempre bella penna di Antonio Panti provo a rispondere con il testo della presentazione che feci a un convegno organizzato proprio dall’Ordine dei Medici di Firenze nel lontano 2012 dal titolo “Chi cura i curanti? Il disagio dei medici nella sanità moderna”. Mi pare che quel testo sia più attuale che mai e spieghi, in maniera magari non proprio politically correct, le ragioni del denunciato burnout  medico.
 
Una domanda sorge spontanea: dove erano coloro che avrebbero potuto porre un argine a questa decadenza di motivazione, convinzione, credenza mentre ci si addentrava nella direzione che prometteva questo epilogo? Perché, taluni, qualcosa avrebbero potuto dire e fare, rivestendo a lungo incarichi di prestigio a pochi centimetri dal potere.
 
Limitarsi a pretendere piccole garanzie sindacali a macchia di leopardo e accordarsi su questa rappresentanza di interessi di minima, mentre le regole del reclutamento e della organizzazione sanitari rotolavano verso la demolizione della autorevolezza e del riconoscimento della competenza professionale, gratuitamente, impunemente e superficialmente additata al pubblico ludibrio, evoca la metafora del dito e della luna. E’ tempo di trattare in altro modo la partita della salute, valutando obiettivamente i risultati e tesaurizzando le risorse meritevoli, a vantaggio di curanti e curati.
Ma ora vi lascio volentieri alsogno del dottore.
 
Un medico non at easein una sanità in disease
Troppe parole, troppo scontate, già troppe volte e inutilmente ripetute, ci sarebbero da dire sul tema. Non resta che scegliere un passaggio fuoripista: raccontare un sogno, per certi versi esemplificativo dello stato dell’arte della condizione medica in Italia, un recentissimo sogno kafkiano che mi ha portata ai confini della realtà.
 
Salivo, in compagnia del Preside di Facoltà, Professor Gianfranco Gensini, per delle scale a chiocciola avveniristiche e scomode al tempo stesso, che conducevano alla stanza del Direttore Generale a me sconosciuto. C’era la brava Infermiera Coordinatrice del servizio di cui ho la responsabilità e altre persone, amministrativi, segretarie, tizi misteriosi cui chiedevo qualcosa ottenendo vaghe risposte. Scale salendo domandavo anche al Professor Gensini notizie sull’oggetto dell’incontro, ma non riuscivo a venire a capo della mia curiosità.
 
Mi sentivo preda di un imbarazzoconfuso e di una vaga paura. Entravamo tutti in un piccolo vestibolo quadrangolare le cui pareti erano ricoperte da tendaggi di un verde screziato e sgraziato, cupo e sgradevole, anche queste disorientanti,labirintiche. Mi infilavo in una apertura della tenda, ritrovandomi in una stanza vuota. Tornavo nel vestibolo e trovavo un altro varco, quello che mi avrebbe condotto in un ambiente senza finestre, privo di scrivania, con una luce che ricordava quella delle zone meno illuminate delle sale operatorie o forse dell’obitorio. Tutti stavano seduti in circolo su sedie, poltroncine, divanetti addossati alle pareti. Era rimasto un solo posto, peraltro molto stretto, accanto al Direttore Generale, su un rigido, scomodo sofà.
 
Il Direttore Generale portava sul capo la papalina dei Pontefici e, nel clima raggelante della circostanza, arrischiavo una battuta: “Per essere arrivata per ultima, ho il privilegio di sedere alla sinistra del Padre…”, battuta che cadeva inascoltata. Nessuno rideva, nessuno mi dava della impertinente. Venivo presentata come Gemma Brandi, mentre continuavo a sperare che prima o poi avrei capito la ragione di quell’incontro. Il Direttore Generale si rivolgeva a me, parlandomi nell’orecchio destro, la sua guancia destra appoggiata sulla mia guancia destra, lo sguardo rivolto verso la parete posteriore, per chiedermi sottovoce chi fossi. Gli rispondevo, sempre sottovoce: “Gemma Brandi”, con naturalezza, benché interdetta per essere stata appena presentata.
 
Mi domandava quindi di cosa mi occupassi. Ed io: “Sono responsabile della salute mentale adulti di Firenze 4”, tutto sempre sottovoce. Dall’altra parte silenzio. Aggiungevo quindi: “Forse sarebbe il caso di parlare di salute mentale…”. Silenzio. Provavo ancora: “Magari anche del carcere…”. Silenzio. Non mi pareva di potere tentare altre considerazioni. Il Direttore Generale manteneva la sua posa, lo sguardo rivolto verso la parete alle sue spalle, la sua guancia destra accostata alla mia guancia destra. Non udivo più niente e per un lunghissimo momento, finalmente interrotto dalla voce di mio marito che mi svegliava, sono rimasta lì a sperare che qualcuno intervenisse dall’esterno o a temere di avere detto qualcosa di inopportuno. Ero dominata da un senso di angosciante impotenza e dal timore di essere sopraffatta.
 
Il mio inconscio, cui è permesso quanto al soggetto cosciente è severamente proibito, vale a dire lapsus, dimenticanze, spostamenti, condensazioni, ingenuità, ha portato a galla il comune sentire di molti medici.
 
Intanto, la presenza rassicurante della infermiera con cui collaboro quotidianamente, permette di sfatare il mito secondo il quale il medico sarebbe invidiosamente arroccato su posizioni di difesa corporativa della supremazia professionale che fu. La interdisciplinarità attraversa la sua pratica quotidiana ed egli ne comprende il valore. Semmai si sente il servo scemo di un sistema in movimento, visto che il cammino della responsabilità non ha tenuto il passo della diversa distribuzione del potere decisionale.E’ dunque tempo che gli Ordini reclamino la chiara attribuzione di responsabilità distinte a ogni singola professione sanitaria.
 
Vero è che qualcosa si sta muovendo in campo giudiziario, se la sentenza 1620/2012 della III Sezione della Corte di Cassazione, riprendendo principi enunciati nella sentenza 577/2008 delle Sezioni Riunite, afferma il principio per cui una struttura sanitaria è condannabile a prescindere dalla negligenza medica, in virtù del contratto di generica “assistenza sanitaria” che detta struttura stabilisce con il cittadino. Il danno a questi derivato potrebbe dipendere da insufficiente o inidonea organizzazione della struttura, da inadeguatezza quantitativa o qualitativa dei beni. Tale forma di responsabilità non deriva necessariamente a fatto imputabile a personale medico.
 
Le scale avveniristiche/scomode dell’incipit del sogno rinviano al fatto che, alla sbandierata sofisticazione della cassetta degli attrezzi del medico,non facciano eco semplificazione e arricchimento del lavoro quotidiano. Di fatto, promesse futuribili e incitazioni al rinnovamento convivono con desuete risposte di cura e con la scarsa tendenza a divulgare le esperienze esemplarmente fruttuose, in uno scollamento intempestivo tra il livello di informazione in ascesa degli utenti e quello di una sanità che usa sistemi di valutazione poco atti a fotografare i servizi e non può dunque fornire dati aggiornati sulla efficacia di questi, né esportare pratiche felici, per un misto di resistenza competitiva e di accidia ignorante. A tale orizzonte poco luminoso si aggiunge un bagaglio sempre più pesante di incombenze burocratiche, che lo strumento informatico ha moltiplicato e che ghigliottina il tempo da dedicare alla relazione terapeutica, della quale in passato si nutriva la fiducia medico-paziente. Tutto ciò è condensato nella confusione onirica, una confusione che nella realtà investe operatori e utenti. Una confusione che né l’Accademia -il Preside di Facoltà-, né l’esuberante apparato amministrativo, spuntato dal nulla, riescono a dirimere. 
 
Nel sogno siedo con gli altri in cerchio, tra titubanza e sconcerto, paralizzata e incapace di pormi in maniera autorevole. Nella realtà il medico si sente accerchiato da una combinazione di attese e accuse, di equivoci e silenzi che lo tengono fermo all’angolo, un angolo dalla luce sempre più incerta e dalla atmosfera soffocante, come quella della stanza onirica. L’auspicio di trovare una via d’entrata, attraverso il vestibolo drappeggiato, ribalta quello di trovare una via di uscita dall’impasse, con il verde delle tende screziato sgraziato che smorza la speranza di rinnovamento.
 
Di fronte alle difficoltà che la professione attraversa, se è opportuno che il medico non assuma su di sé colpe altrui, anche perché destinate a generare un senso di colpa improprio che non conosce espiazione praticabile, è bene che eviti di proiettare all’esterno le proprie mancanze. Meglio riflettere su cosa ci abbia messo di suo per arrivare al generale svilimento della professione, prima di puntare il dito sull’altro.
 
Intanto ha contribuito a quello svilimento accettando talora l’inaccettabile, come incarichi per i quali non aveva la preparazione -nel sogno si reca a un incontro dal tema misterioso- o compiti che collidono con la stessa deontologia, così optando per quella che definisco responsabilità pericolosa. Serve quindi un richiamo etico a tutti noi perché non si ceda alla lusinga e alle pressioni che in maniera sempre più audace e indiscriminata il marketing e la politica esercitano, perché non si flirti troppo con il potere-rischio cui il sogno fa esplicito riferimento. Serve la generosa modestia di riconoscere le competenze dell’altro e non nasconderne i meriti, un atteggiamento dello spirito alimentato dalla intelligenza, che ci rende capaci di imparare e permette al malato di cogliere l’aiuto di cui ha bisogno. Oh rara avis, considerato che l’inclinazione diffusa è di segno opposto!
 
Il medico ha commesso poi l’errore di sposare la acritica promessa di guarigione, anticamera del miraggio di vivere in eterno. Questa brama ha orientato l’impegno dei curanti su tecniche sempre più esatte e risolutive (chirurgia estrema, cellule staminali, farmaci selettivi). Ma se la morte è un limite invalicabile, anche la guarigione è spesso utopia. Occorre che il medico non avverta come fallimento della sua azione terapeutica la cronicità della sofferenza. Solo così potrà aiutare davvero, il malato che non guarisce da una parte e l’uomo comunque, ad accogliere la malattia e la vecchiaia, ma soprattutto a stare meglio, ad andare a braccetto con la sua diagnosi e con l’avanzare dell’età. Se la spinta ad avventurarsi in promesse di salute è largamente frutto del bisogno impellente di pubblicità della politica, nel quale il medico si trova irretito, il discredito delle attese disattese si riversa inevitabilmente copioso sulla categoria. Una medicina di annunci e di impegni spesso non mantenuti, ha indotto parte della utenza a disistimare il medico, uscitone indebolito. La distrazione che nel sogno può permettersi il Direttore Generale, non prestando ascolto al nome che gli viene presentato, sarebbe esiziale per il medico nella sua pratica.
 
Cosa ci hanno messo gli altri, quelli che medico non sono o non fanno, quelli che avrebbero dovuto aiutarlo a lavorare al meglio, per ridurre il professionista nella condizione impotente descritta dal sogno? Intanto hanno mortificato consapevolmente un sapere indispensabile, con la perversione di presentare tale agito come una scelta nell’interesse comune. Diceva Freud che il medico non dovrebbe vivere in miseria, perché l’infermo ha necessità di appoggiarsi a lui nel bisogno e non potrà farlo avvertendone la debolezza e gli assilli. La mortificazione qui indicata è però assai più grave, perché non riguarda soltanto la sfera economica, ma anche la dignità professionale dei medici, che hanno visto nel tempo assottigliarsi il riconoscimento delle loro competenze -una ferita annichilente per i giovani e demoralizzante per gli esperti.
 
Dove è finito quanto il Professor Piero Barucci, noto economista, indica come il rapporto direttamente proporzionale tra volume di conoscenze e capitale di una impresa, se le conoscenze contano sempre meno nell’impresa sanitaria? Un medico non riconosciuto professionalmente e privato del suo tempo, la cosa più preziosa di cui l’uomo disponga, sottoposto a un surménage burocratico stressante e all’aumento del carico di lavoro, che ha visto scadere qualitativamente la sua attività: ecco il medico del 2000 in Italia. Il sacro dottore di un tempo è diventato un poveraccio e un poveretto, altro che vita da medico, potremmo dire parafrasando il libro Vita da artista di Carlo Cassola: quella del medico è diventata una vita da miserabile.
 
E infine, l’ordinario maltrattamento in corso d’opera, spesso nella indifferenza aziendale, attesta di quanto carente sia la tutela della funzione, frutto peraltro della ignoranza di questa. L’ente pensa più a proteggersi dal contenzioso che a salvaguardare gli operatori dalle aggressioni, in una gestione politica del conflitto che niente ha a che fare con il rispetto delle persone, dei pazienti per primi. Una gestione in cui a dettare legge, anche in materia di salute, sono, non tanto coloro che potrebbero contribuire a un miglioramento della risposta, ma chi in maniera arrogante e prepotente si impone al politico in cambio di promesse elettorali. Roba da matti!
 
Torno a Piero Barucci e alla mezzadria, una impresa familiare e conchiusa, basata su autoconsumo e scambio. Seguì l’impresa come combinazione di fattori tendenti al profitto, che considera le conoscenze funzione principe del capitale. Oggi che l’impresa salute sembra avere messo in sordina le conoscenze, da cosa trae la sua sopravvivenza? Ritengo, da una sorta di ritorno alla mezzadria -le isole laboriose in cui qualche persona competente sa far girare al meglio l’ingranaggio, fornendo risposte di eccellenza in sordina, isole dove la qualità sposa il risparmio.
 
Il decadimento accademico ha comportato, come osserva sempre il Professor Barucci, una distribuzione decentrata delle eccellenze rispetto ai poli universitari. Il problema è che le nicchie di sopravvissuti della qualità non possono fare scuola, e non se ne sa granché. Finiscono in tal modo per rappresentare eccezioni che confermano la regola del declassamento medico. E’ questo depauperarsi progressivo della rete delle conoscenze tra qui e là, tra oggi e domani, che opprime il medico, consapevole del fatto che il vero confine è tra stare bene e stare male, più che tra salute e malattia, visto che cura pazienti che stanno bene pur essendo portatori di una diagnosi cronica, e che tale confine è là per essere trasgressivamente sfidato grazie alla ricerca più che per il tramite dell’accanimento terapeutico -uno strafare inutile quando non dannoso. La ricerca ha però bisogno di una comunicazione agile e facilitata. Quella che abbiamo visto mancare.
 
Serve, senza alcuna pretesa di essere gli ultimi dei giusti, un po’ della cara vecchia conveniente Dike, del dono che Zeus fece agli uomini perché smettessero di litigare tra di loro, preludio dell’età dell’oro. Suo compito è fare bene al giusto e male all’ingiusto: Sum bona spina malis, sum mala spina bonis, è il motto dei Malaspina. Serve anche un po’ di Marco Aurelio, dell’imperatore filosofo, il migliore compagno di cordata nei momenti della sofferenza, colui che il suo predecessore, Antonino Pio, chiamava non Vero, ma Verissimo fin dalla fanciullezza. Egli ricorda come ciò che non serve all’alveare non serva neppure all’ape.
 
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista

06 gennaio 2018
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