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Sanità, Taylorismo e catena di montaggio. Non tutto è da buttare

di Ivan Favarin

16 GEN - Gentile direttore,
vari articoli apparsi su questa testata citano il “Taylorismo” e “la catena di montaggio”, e sempre in termini negativi. La teoria del management o l’ingegneria industriale non sono il “focus” né il “core business” di questa rivista. Questo a parziale giustificazione.
Qualche precisazione è però doverosa.

Adam Smith spiegò che la produzione di spilli diviene più efficiente con la parcellizzazione dei compiti. Era la base del metodo fordista. All’inizio non era una catena di montaggio mobile come la conosciamo: gli operai portavano i pezzi al luogo di montaggio della vettura, come farebbe una piccola officina artigianale o di lusso.

Generalmente, nella produzione di massa moderna, il semilavorato si sposta su una linea detta “catena di montaggio”. Se le operazioni sono fisse si parla di “trasferta rigida”; se cambiano, di “trasferta flessibile” (Flexible Manufacturing). Molte sono oggi robotizzate.

Questo è quello che è passato nell’immaginario collettivo come “il lavoro in fabbrica”, con operai rimpiazzati dai robot. La “catena di montaggio” è diventata un termine ultimo di paragone. Un manufatto artigianale è svilito se messo in catena di montaggio. E così le prestazioni sanitarie.
In termini generali, il paragone regge, ma con gravi esagerazioni. E poca appropriatezza.

Innanzitutto, non ho mai visto un paziente su una vera catena di montaggio. Quello che più vi si avvicina (il paziente va passivamente dall’operatore e non viceversa) è il blocco operatorio. E nessuno si scandalizza di questo: funziona! e nessun chirurgo vede nell’automazione un sostituto, bensì un supporto. Avere un luogo e degli operatori dedicati è meglio che allestire una sala operatoria di fortuna e accorrere tutti quanti sul paziente. Persino interventi ad altissima complessità si giovano della parcellizzazione sequenziale: pensiamo ai trapianti multiorgano. Ci ricorda il Flexible Manufacturing.

La differenza abissale però c’è ed è tangibile: gli operatori, per quanta routine ci sia, devono essere tutti addestrati e attenti, anche a cosa fa il vicino. Non c’è un semilavorato sotto i ferri, ma un paziente. Non esiste il pulsante rosso di blocco della linea. E nessuno si sogna di gestire l’ospedale con l’MRP o il Just-In-Time. Quindi il paragone regge, ma fino a un certo punto. Qualcosa però ogni tanto passa: ‪Fishbone Analysis, RCA, FMECA sono sigle ormai parte del bagaglio del governo clinico.

Usciamo dal blocco operatorio. Un ambulatorio prelievi TAO ha bassa complessità, alta routine ed elevati output. Può sembrare una stazione della catena di montaggio e diventare alienante: le alternative in ambito di management vanno dalla job rotation alla più sofisticata riprogettazione del prodotto/processo (i NAO).

Nel caso di una sala di emergenza (ER), il paragone più calzante è forse un laboratorio artigianale specializzato (ad es. aerospaziale) al quale portiamo il paziente e lì accorrono le figure specialistiche, per il tempo necessario, con notevole intensità.

C’è chi dalla catena (intesa come struttura dedicata) esce e diviene come l’artigiano a domicilio. Quello è l’antitesi della catena di montaggio. E’ l’operatore domiciliare che va dal paziente. Succede in molte situazioni che vanno dalla medicazione a domicilio programmata al parto a casa. Ma in caso di complicanze si trasporta il paziente all’ospedale più idoneo. E il modello torna ad assomigliare di più al flexible manufacturing che non alla costruzione in loco dedicata e ultraspecialistica (ad es. la diga della centrale idroelettrica).

Insomma, la vituperata catena di montaggio, sporca e rumorosa, ha generato una gestione scientifica e razionale della operazioni, e ha funzionato cambiando il mondo (Womack). Non per questo abbiamo perso il ricordo del valore della produzione dedicata, artigianale.

La medicina non ha mai scordato questo. A noi sanitari non basta sentir dire: “la tecnologia è la risposta”; noi continuiamo a chiederci: “ma qual è la domanda?” - e lo facciamo ogni volta interrogando il paziente “mi dica come sta, di cosa ha bisogno”.

Fatte le debite distinzioni, va ricordato che dai processi di produzione industriale sono venute importanti esperienze (oltre ai prodotti che ci permettono di operare!). Il Taylorismo (volgarmente il management industriale per antonomasia) è lo spauracchio, perché tutto ciò non piace concettualmente, è alienante e va superato. Con la flessibilità tecnologica, lo sviluppo delle competenze umane, l’ottimizzazione del througput (Goldratt), la cura della qualità sotto ogni aspetto (Ohno), la potatura di prassi obsolete (Lean Manufacturing) che non aggiungono valore al risultato finale (Porter), l’attenzione all’ambiente (protocolli di Kyoto e Parigi), molto si può migliorare.

Quanto di tutto questo c’entra con la sanità? Potremmo imparare qualcosa dall’esperienza industriale, invece di demonizzarla.

Ivan Favarin
Laureato in Infermieristica

BSc(Honours degree) Business with Technology
Ingegneria della Produzione Industriale

16 gennaio 2018
© Riproduzione riservata

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