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Osteopati. Che fare con chi ha fatto corsi non autorizzati?

di Michela Podestà

19 SET - Gentile direttore,
penso che possa considerarsi comprensibile l'istanza degli osteopati per un'equa conclusione dell'iter legislativo che istituisca in via definitiva la loro professione sanitaria. Riaffermato il diritto alla propria integrazione in ambito sanitario come sancito dalla legge 3/2018 e riferito da OMS e da apposita norma europea di standardizzazione, credo che i rappresentanti degli osteopati debbano fare un passo avanti in termini di disponibilità collaborativa e interazione professionale.
 
Se non altro allo scopo di scongiurare una nuova campagna denigratoria da parte di chi, a torto o a ragione, in termini sinceri o più o meno interessati, tema ripercussioni sanitarie conseguenti al riconoscimento di migliaia di neo-professionisti le cui competenze non siano accertabili. Un errore di strategia in tal senso, per quanto motivato da esigenze di visibilità, potrebbe comportare responsabilità in caso di ulteriore dilazione del riconoscimento professionale.
 
Viceversa, un miglior metodo potrebbe presupporre la consapevolezza circa la difficoltà oggettiva di riconoscere percorsi formativi nazionali non autorizzati, come nati e cresciuti negli ultimi trent'anni senza alcun controllo istituzionale. Quest'ultima evidenza è altresì confermata nell'allegato per l'Italia alla norma CEN di settore in cui gli stessi osteopati indicano come contestabili i corsi di osteopatia non autorizzati oltre all'esercizio della loro professione.
 
Ne consegue che, se i corsi di osteopatia non autorizzati siano contestabili, anche la formazione dei professionisti non possa convalidarsi in relazione a qualsivoglia mansione sanitaria si intenda identificare per gli osteopati. Per tale ragione non dovrebbe essere difficile comprendere le difficoltà dello specifico iter legislativo e giustificare la necessità di ricondurre la specifica regolamentazione a prassi giuridicamente incontestabili nell'interesse di tutti.
 
Raggiunta tale consapevolezza, con altrettanto realismo gli osteopati italiani dovrebbero proporre un'iniziale abilitazione per coloro i cui requisiti pedagogici siano legalmente congruenti in riferimento alle leggi nazionali e dei Paesi dell'Unione europea, a loro volta riferibili alle norme e ai rapporti internazionali. Anche gli anni di esercizio professionale dichiarato, insieme ai corsi di aggiornamento accreditabili e alle pubblicazioni effettuate, potrebbero rappresentare criteri abilitanti per tutti coloro che non dispongano di crediti formativi legalmente dimostrabili ma intendano postulare la propria abilitazione anche mediante la successiva frequenza di corsi ad hoc.
 
Nella condizione di stallo attuale ritengo, cioè, che gli osteopati esclusivi possano competere non tanto attraverso generiche rivendicazioni per quanto ben supportate da dati oggettivi. Le autorità preposte, infatti, già dispongono di tutte le fonti necessarie. Ciò che occorre loro è riaffermare la stessa volontà cooperativa che ha consentito la stesura dell'art. 7 della legge 3/2018 e la sua successiva approvazione. Come? Ribadendo il valore autonomo della loro professione sanitaria, della legalità della loro formazione e della legittimità del loro esercizio esclusivo.
 
Michela Podestà
Osteopata D.O. diplomata C.E.E.S.O. Parigi

19 settembre 2018
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