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A proposito di suicidio e responsabilità dello psichiatra

di Pietro Pellegrini

02 NOV - Gentile Direttore,
intervengo su suicidio e responsabilità dello psichiatra a seguito degli articoli del prof. Biondi e della Dr.ssa Brandi e Dr. Iannucci pubblicati da QS. Il tema è molto delicato in relazione al clima culturale e sociale che ha implicazioni anche in ambito giuridico si pensi alla questione dell'istigazione al suicidio sollevato dalla vicenda Cappato-DJ Fabo ma anche all'applicazione della legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento.
 
Mi limito ad alcune riflessioni in ambito psichiatrico. A 40 anni dalla legge 180 vanno superati alcuni inveterati stigmi: i disturbi mentali sono sempre più curabili, guaribili, sono condizioni transitorie, ed anche quando di lunga durata non sono totalmente pervasivi l’intera attività psichica. Non più un malato considerato irresponsabile, inguaribile, incapace, improduttivo sempre da tutelare da parte di qualcun altro, lo psichiatra, che deve sempre occuparsene e risponderne, sotto ogni profilo.

Infatti, la persona con disturbi mentali vive una sofferenza che può curare, è capace di consenso, di co-costruire un percorso di cura, mantenere o raggiungere un livello di funzionamento sociale, rispondere dei propri atti.

La stessa psicopatologia viene sempre più letta con un modello biopsicosociale che vede reciprocamente interagire diverse variabili, dimensioni in una condizione di complessità e multideterminazione. Le scoperte relative alla neuroplasticità, all'epigenetica, ai processi di recovery fanno pensare ai disturbi mentali in senso evolutivo, relazionale e dinamico e non statico/cronico ed oggettivante.

La multifattorialità ha portato cogliere come centrali nella determinazione delle condotte, come insegna la suicidologia (Edwin S. Shneidman, in Italia Pompili) a proposito del suicidio, vissuti come il "dolore mentale intollerabile" e la perdita di speranza che intersecano diverse altre dimensioni psicopatologiche, sociali, esistenziali, relazionali. Una condizione di rischio che può restare anche quando si curano al meglio la depressione grave o la schizofrenia.

Persiste una condizione di ambivalenza, tra vita e morte che lo psichiatra può affrontare con strumenti tecnici e relazionali, con un’estrema sensibilità, capacità di ascolto, umiltà e senso del limite. Una psichiatria "gentile" dice Eugenio Borgna.

Impegnarsi per prevenire il suicidio è necessario e possibile: un compito non solo professionale ma che va esteso all'intera comunità (la differenza dei tassi tra i paesi del nord europa e quelli del sud chiama in causa molte variabili ambientali, socioculturali, religiose, etiche). Quindi l'impegno del medico e la motivazione di tutti gli operatori sanitari vi deve essere, è un rischio che va tenuto presente, pensato e affrontato. Ma se vi è un obbligo di mezzi non vi può essere quello di risultato?

A fronte di rischi molto complessi se il medico, lo psichiatra non riesce a salvare la persona, non trova quella speranza di vita che ogni suicida comunque esprime, dobbiamo perseguirlo? Il fantasma della colpa che circola pesantemente in queste situazioni, deve ricadere sempre su qualcuno non solo psicologicamente ma anche giuridicamente? La morte fa sempre meno parte della vita… e nel processo della sua medicalizzazione è sempre meno un fatto umano inevitabile, esistenzialmente connesso, ma diviene sempre più un fatto anche giuridico. Ma con questa impostazione non stiamo fortemente deragliando? Va detto con forza: la vita appartiene alla persona e solo ad essa e alla sua autodeterminazione.

Nessuno può essere costretto a vivere dall’altro. Lo si vede nel "suicidalità continua" di certi soggetti che sfidano costantemente la morte e talora anche lo psichiatra specie se pensa “ti salverò”.

In tutte le persone il vissuto interiore è solo in parte conoscibile e comunicabile e questo, non solo pone un limite derivante dalla presenza di una vita psichica inconscia, ma è connesso anche alla relazione con l’altro. Una relazione unica e irripetibile rispetto alla quale ogni tentativo di standardizzazione, manualizzazione trova un limite invalicabile. Anche in questo si sostanzia quanto scrive il prof. Biondi.
 
La diagnosi non è solo un processo oggettivo e obiettivo, né è una serie di item ma conoscenza condivisa attraverso la relazione, è la rappresentazione e la definizione nel mondo interno del terapeuta della condizione della persona che soffre e comincia attraverso questo un processo di possibile cambiamento. L’essere pensati dall’altro è essenziale per la crescita e la cura.

Per altro le Linee Guida (LG) in psichiatria non colgono la complessità e la compresenza di più di disturbi e di problematiche familiari, sociali e relazionali. Inoltre larga parte delle LG proviene da paesi dell’area anglosassone, dove i servizi di salute mentale sono molto diversi, sono aperti i manicomi. Le pratiche psichiatriche sono dipendenti anche da contesto culture e norme e fenomeni come il suicidio sono correlati anche con fattori sociali come le crisi economiche hanno sempre dimostrato. Per non dire dei fenomeni mediatici e delle nuove tecnologie.

In altre parole la psichiatria può curare se attua la massima personalizzazione, nella consapevolezza delle differenti sensibilità ai trattamenti farmacologici, alle relazioni psicoterapiche, agli interventi psicosociali.

Per quanto vi siano conoscenze, orientamenti e linee guida il dato della personalizzazione, dell’unicità della relazione psichiatra paziente è ineludibile.
A maggior ragione se si coglie come il consenso e l’adesione alle cure non siano categorie ma dimensioni variabili nel tempo e contengano sempre una pluralità di vissuti, spesso poco coerenti o talora palesemente contrastanti. Quindi il lavoro dello psichiatra è un’operazione attiva di ricerca di consenso e adesione alla cura sempre unica e nella quale deve sentirsi libero, sicuro e autorevole sostenuto dalle competenze acquisite, dalla formazione alla relazione, dal sostegno istituzionale. Questo in un contesto operativo, il territorio, nel quale le variabili non controllabili sono molteplici e dove la stessa organizzazione dei servizi della salute mentale mette lo psichiatra in una condizione di considerare la soluzione del TSO come residuale.

Cosa significa chiedere allo psichiatra una "posizione di garanzia di controllo", di ridurre il pericolo a sè e agli altri costituito dal paziente?

In primo luogo, lo psichiatra può incontrare una persona che soffre pensandola come "un pericolo"?

Con quale stato psicologico può intervenire? Non sarà tentato di evitare il paziente, specie se è difficile?

Se pensa a tutelare se stesso, il che è umanamente comprensibile, tenderà a non correre rischi, a non voler/poter cogliere i segnali più inquietanti specie se subliminali, non verbali. In altre parole la mente del terapeuta potrebbe attivare un atteggiamento formalmente ineccepibile, ma chiuso al mondo dell’altro, quindi non diagnostico e non terapeutico. Senza essere pensati dall’altro, dallo psichiatra, non vi è cura effettiva ma solo una burocratica “pseudocura”.

Insistere sulla posizione di garanzia di "controllo" porta fuori strada tutta l’organizzazione della psichiatria e rischia di bloccare i processi di cura e di attivare richieste coercitive per altro di difficile realizzazione per i limiti nella dotazione dei posti letto negli SPDC.

Vi sono strumenti tecnici che con evidenza scientifica, applicati ex ante, in grado di prevedere e prevenire il suicidio? No, possiamo al più evidenziare un insieme di fattori di rischio, di fattori protettivi, favorenti e precipitanti.

Fattori in parte modificabili e altri no. Se ci si allontana dal mondo delle pratiche per entrare in quello delle speculazioni spesso ex post si rischia di giungere ad un psichiatria teorica, burocratica, una psichiatria ideale che potrebbe crescere fino a creare una sorta di "pseudopsichiatria" fatta di Manuali diagnostici statistici (DSM) e LG ad uso di periti, magistrati e avvocati.

Una pseudopsichiatria depurata della complessità, del reale, della dure evidenze delle pratiche resa artificiosamente lineare, senza fattori interferenti e sempre senza il paziente considerato oggetto passivo di cure, volontarie o meno. Una persona da assoggettare alla terapia anche con il TSO sine die e con le limitazioni (condivise) della libertà?
 
Se le sentenze della Cassazione del 2008 di condanna di psichiatri per omicidio e suicidio di pazienti in cura avessero fatto scuola la psichiatria italiana avrebbe dovuto riprendere pratiche coercitive, segreganti e chiedere leggi e mezzi diversi, reparti chiusi. Nonostante le ingiuste condanne per atti auto o eterolesivi commessi dal paziente, la psichiatria italiana non è regredita nelle proprie pratiche, né sono state attivate controriforme.
 
Questo lo si deve alla grande motivazione etica, alla consapevolezza che non vi è altro modello di cura applicabile nell’attuale contesto. Non solo non è regredita ma ha avuto la forza anche di superare l’OPG inventando un nuovo sistema e definendo con molta fatica nuove prassi. Pur con tutti i limiti del sistema, il sottofinanziamento denunciato dalla SIEP anche su QS, si è realizzato un cambiamento epocale. A fronte di questo, e ai fini del nostro discorso, a fronte di un possibile incidente che può accadere sono gli psichiatri (e solo loro?) a doverne rispondere? Un po' provocatoriamente viene da chiedersi: a fronte di recidive nei reati di molti detenuti (circa il 70%) chi ne risponde?
 

Sono domande molto attuali in quanto vengono sempre più affidati ai DSM soggetti con disturbi mentali autori di reato nei quali è possibile e talora evidente il rischio di recidive (si pensi all'uso di sostanze). Come viene gestito socialmente il rischio? Si può ammettere che esista una “responsabilità da contatto”? In altre parole basta che una persona si rivolga allo psichiatra per configurare una posizione di garanzia di controllo? Non solo è un compito abnorme in quanto non vi può essere da parte dello psichiatra il controllo della condotta dell’altro. Tutto questo potrebbe scoraggiare ad occuparsi di determinati utenti e riattivare un grave stigma rispetto alle malattie mentali e a chi si prende cura delle persone che ne soffrono. Vi sono forme (braccialetti elettronici, intercettazioni, firme, controlli a domicilio ecc.) che esulano totalmente dalla psichiatria.
 
Serve una definizione del patto sociale evitando che, a fronte di gravi reati, magari attivati da familiari talora ambivalenti o abbandonici, si vada a ricercare chi e come il medico ed in particolare lo psichiatra è intervenuto.

Si è in grado di comprendere le grandi difficoltà dello psichiatra a cogliere il vissuto interiore della persona? La giustizia ha consapevolezza della impostazione e dell'organizzazione dei servizi derivati dalla legge 180 o fa ancora riferimento alla legge 36/1904, quella sui manicomi?

Anche nelle perizie, talora a partire dalla “psichiatria ideale” viene attuata una valutazione ex post della diagnosi e del programma di cura che viene posto in capo esclusivamente allo psichiatra collocando in secondo piano la posizione del paziente. A posteriori negli audit o nelle autopsie psicologiche dei suicidi si trova sempre “qualcosa” da migliorare ma questo non significa colpevolezza o esistenza di nessi causali o omissioni.

Un atteggiamento dal quale potrebbe derivare una spinta verso la psichiatria ideale/prescrittiva che si cautela su tutto scarica sul paziente il problema dell’adesione alle cure e non lo rende parte della relazione condivisa. In sostanza lo psichiatra dice che si dovrebbe fare, in particolare in merito al farmaco prescritto secondo LG, e se poi ciò non accade, teoricamente lascia solo/ricusa il paziente. Pratica che nel privato è anche possibile mentre nel pubblico vi è una sorta di psichiatria della trattativa continua con le persone che si attengono solo parzialmente ai programmi.

Dovremmo abbandonarli nel timore di essere chiamati a giudizio? O non conviene cercare di curarli al meglio cercando con fatica, pazienza, umiltà e compromessi un'alleanza terapeutica? O devono riprendere pratiche coercitive, limitative della libertà nell'idea che questo prevenga i suicidi (quando i dati dicono che nei contesti chiusi questi sono dieci volte maggiori della popolazione generale)?

In medicina, e anche in psichiatria non vi può essere terapia e riabilitazione senza l’attivo coinvolgimento e partecipazione della persona. Questo anche nelle condizioni difficili, dove le scelte della persona non sono condivise dal medico (si pensi all’uso di sostanze, alla dieta ecc.). Affinché la psichiatria possa esercitare il mandato di cura, gli psichiatri consapevoli dei limiti tecnico-scientifici e organizzativi, devono essere liberati della posizione di garanzia di controllo, da compiti tecnicamente e umanamente impossibili e ad essi va riconosciuto il "privilegio terapeutico".

Pietro Pellegrini
Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma


02 novembre 2018
© Riproduzione riservata

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