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Racconti di Natale nel sistema salute Italia (Terza storia)

di Gemma Brandi

07 GEN - Gentile direttore,
in clima prenatalizio una donna ultranovantenne, da tempo paralizzata, ma dotata di ottime capacità cognitive, va incontro a Sindrome di Tako-Tsubo, una miocardiopatia da stress che si manifesta con i tipici segni dell’infarto cardiaco, ma la cui evoluzione è nella maggior parte dei casi benigna. Ha subito eroicamente, nei giorni precedenti, un intervento odontoiatrico ambulatoriale protratto per due imponenti ascessi determinati dal crollo di un vecchio ponte.
 
Quando, dopo un soggiorno di alcune ore nel Pronto Soccorso di un qualsiasi ospedale italiano, giunge in terapia intensiva, prega il personale di una cosa: preservarle il cervello che reputa il solo organo ormai davvero funzionante del suo corpo. Ed è invece l’attività mentale a subire il temuto danno, vittima della noncuranza e della superficialità che fa dire, a chi non pensa e ignora, come sia scontato che un anziano perda la testa dopo un intervento chirurgico o una ospedalizzazione, giungendo a promuovere ricerche per comprenderne il motivo.
 
Lo scetticismo è d’obbligo a fronte di simili banalizzazioni o complicazioni, quando basterebbe essere accorti per evitare esiti gratuiti. Prova ne sia il fatto che l’anno precedente quella stessa persona, sottoposta a una operazione urgente, stavolta in una clinica privata con ottima assistenza e una camera riservata, dopo un passaggio veloce nel solito infernale Pronto Soccorso, ne era uscita indenne in pochi giorni. Invece, in quella unità intensiva, nell’arco di poche ore, la signora, entrata con un apparente infarto, ma ben lucida, comincia a perdere il contatto con la realtà, dopo una notte in cui ha assistito -senza filtro e senza rassicurazioni di sorta, anzi uscendone con un terrore che le farà dire “siamo in un albergo per poveri” (vedi poveri disgraziati, un’ultima spiaggia, anticamera del peggio, una malebolgia indescrivibile) ed evocare rimproveri ingiustificati per durezza- ad accessi venosi cruenti e alla morte di un compagno di sventura, come verrà poi spiegato agli attoniti congiunti.
 
Cosa induce a ritenere che un soggetto riservato, con percezioni indebolite, incapace di muoversi, per di più sofferente, esca indenne da quello che sarebbe il caso di denominare maltrattamento, piuttosto che trattamento? Ne esce giocoforza estraniandosi e, se la cosa dura troppo a lungo, non essendo poi in grado di adeguarsi all’esame di realtà. Lo capirono i familiari che decisero di portarla velocemente via da quel reparto, dove le erano stati anche somministrati psicofarmaci a casaccio, senza chiedere alcun consenso, non dico a lei, ma almeno ai parenti consapevoli e in grado di fornire qualche indicazione. In aggiunta, il materasso antidecubito scomodissimo del quale una infermiera aveva detto “lo farei provare a chi li ha acquistati”, gli procurerà in tre giorni il suo primo decubito nell’arco della vita, per quanto costretta da tempo alla infermità.
 
Per non parlare della scadente assistenza igienica, mentre è impedito, alle persone di casa, ogni intervento suppletivo. Tornata al suo domicilio, dopo una dimissione durata quasi un giorno e conclusasi nel cuore della notte solo grazie alla pietà di amici in grado di mettere a disposizione l’ambulanza invano attesa per otto ore, necessaria al trasporto di una paziente infartuata e abbandonata su una lettiga in una stanza fuori controllo, la donna si addormenta nel suo letto, recuperando nei giorni successivi la piena capacità di mettersi in relazione con i suoi simili e annunciando ai congiunti che avrebbe dimostrato loro come si resuscita. Si sarebbe fatta promettere di non riportarla mai più in un ospedale, qualsiasi evento fosse accaduto. Promessa ovviamente da mantenere.

 Storia analoga, in un’altra città del Belpaese, dove la moglie di un dirigente amministrativo molto legato al mondo medico va incontro, non ancora ottantenne, a un accidente cerebrale di modesta entità. Portata in Pronto Soccorso, vi verrà trattenuta per accertamenti risultati poi impossibili in quell’ospedale. Durante la degenza, nel pieno rispetto delle linee guida, ma non della interessata, il personale impone la cateterizzazione. La donna non accetta e viene dimessa con l’ipotesi di un nuovo ingresso in altro nosocomio, dotato degli strumenti diagnostici lì mancanti. Dovrà essere ricondotta urgentemente da casa nel secondo policlinico per una ricaduta del quadro ictale.
 
Appare nondimeno ancora in grado di gestire le sue funzioni e chiede di accedere al bagno, ma le viene impedito, mentre le si impone di evacuare nella padella e di sottoporsi a cateterizzazione. La donna prega i sanitari e il marito di evitarle quella mortificazione per lei non necessaria, si ribella come può e, non trovando la comprensione che cerca, si rifugia in un suo mondo altro dal quale non uscirà più, non riconoscendo neppure il marito la sera in visita. L’uomo narra questo episodio con lucidità, consapevolezza e un profondo senso di colpa, mentre definisce un inferno la struttura che ha ospitato la tragedia. A distanza di un anno, nel rievocare il suo calvario, piange disperato, vittima di un dolore che non lo abbandona da allora.

 Due vicende che devono indurre a riflettere su cosa serva alla emergenza sanitaria dell’anziano: non solo ciò che è indispensabile a qualsiasi età, vale a dire una tecnologia all’avanguardia, ma anche e forse soprattutto una flessibilità rispettosa e la volontà terapeutica di non facilitare la regressione. Si è stati in grado di comprendere il bisogno del bambino, ma si tace su quello dell’anziano. Cosa accadrebbe a un piccolo di diciotto mesi lasciato in balia di persone sconosciute, in un habitat sconosciuto senza la intermediazione materna? Un capriccio inconsolabile che non aiuterebbe le cure e peggiorerebbe il quadro? Una caduta anaclitica? Certo è che una delega non assistita potrebbe segnarne traumaticamente il percorso futuro. Perché non capire che analoghe accortezze servono all’anziano per rendergli accettabile una realtà avversa?

 Appare quindi non peregrino interrogarsi sulla mancanza di un pensiero in questo campo: cosa si intende fare per i vecchi fragili? Sono costoro considerati un disturbo per la società, al di là delle frasi di circostanza e degli spot elettorali con i centenari invitati a pranzo dalla autorità di turno? Ci devono essere degli esperti che abbiano pensato di allestire una risposta assistenziale di urgenza per gli anziani, che li accolga nel periodo perioperatorio o per una osservazione clinica di pochi giorni!
 
Sono convinta che i parenti che amano i loro vecchi sarebbero più che disponibili a rivolgersi a simili strutture, qualora esistenti, per una risposta che non restituisca loro uno zombie “guarito”. Vogliono/possono gli organi della salute pubblica offrire oggi quello che serve a un anziano bisognoso di essere assistito che vada incontro a una urgenza sanitaria? Qualcosa di diverso da quanto qui si narra? E altrimenti, esiste un pensiero privato sul tema?
 
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto


07 gennaio 2019
© Riproduzione riservata

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