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L’Italia delle eccellenze che trascura l’ordinario

di Ivan Favarin

03 FEB - Gentile direttore,
riflettendo sull’analisi dell’impareggiabile Fabrizio Gianfrate, convengo che viviamo un’epoca di forti disagi, potenziali pericolosi prodromi di molte violenze. La Francia dei “casseurs” ci ricorda che loro la rivoluzione ce l’hanno nel sangue, con tutte le contraddizioni e i distinguo del caso. Da noi non mancano le manifestazioni violente, ma meno corali, più individualistiche e meno incisive.

Quell’odioso stereotipo dell’Italia più famiglia che patria, più individuo che società, pare azzeccato proprio nelle situazioni di grave crisi. Il “familismo amorale” delineato dal controverso studio di E.C. Banfield, (“The Moral Basis of a Backward Society” - 1958) tutto sommato sembra più plausibile visto con gli occhi di un espatriato (quale sono stato per anni), ed è puntualmente confermato dalle impressioni di stranieri digiuni di nozioni in merito. È facile notare la nostra propensione a crescere “bravi figli” piuttosto che “bravi cittadini”, ad “approfittare” invece che “usufruire” di un servizio.

Di fronte alla ribellione popolare, la tradizione popolare ci ha perpetuato l’infelice uscita: “S'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche!”

L’esclamazione attribuita a Maria Antonietta (pare invece coniata da Rousseau ben prima) forse non sarebbe mai uscita dalla bocca di un nostro ministro. E non per maggior consapevolezza della gravità della situazione: semplicemente perché non appartiene alla nostra inveterata cultura del “salvare il (proprio) salvabile”. Atteggiamento che accomuna tanto il poveraccio che lotta per una barella in pronto soccorso (non trovando risposte altrove) quanto il politico miope, che promette brioches per tutti, senza rinunce per nessuno. Siamo un popolo incapace di concepire il bene collettivo, l’interesse comune come valore supremo.

Come utenti, non riusciamo a capire che l’opportunismo è la peggior risposta al malfunzionamento del sistema, perché le pur sacrosante rimostranze muoiono con la propria soddisfazione individuale: solo di rado si assiste a iniziative civili volte al miglioramento collettivo.
Come sanitari, non coltiviamo un progetto comune ma difendiamo una posizione (individuale o di reparto); di rado facciamo sistema, accusando invece di responsabilizzarci, a scapito della qualità generale.

Siamo produttori di eccellenze incapaci di ordinaria manutenzione. Sforniamo brioches ma non troviamo il modo per provvedere al pane quotidiano. Senza basi solide, continuiamo a perpetuare una visione “bella” ma poco funzionale dei servizi. Si raggiungono localmente eccellenti prestazioni di alta specializzazione mentre altrove si fatica per fornire un’assistenza dignitosa, che dovrebbe essere invece la base di partenza per poi eccellere.

Senza rinunciare alle brioche, chi finanzia il sistema sanitario dovrebbe metterci in grado di sfornare ovunque pane sufficiente, nei tempi e nei modi adeguati. Ed educarci a capire (e far capire) che la strada della responsabilità (verso l’utenza in primis) è l’antidoto all’opportunismo.
 
Ivan Favarin
Infermiere

03 febbraio 2019
© Riproduzione riservata

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