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Cosa manca nel palinsesto degli Stati Generali della professione?

di Brenda Menegazzo e Gaia Zagolin

30 MAR - Gentile Direttore,
partecipando al dibattito sulla questione medica come giovani professioniste non abbiamo potuto non apprezzare le parole del Dott. Antonio Panti (QS 20 marzo 2019) che nel condividere la necessità di un “riavvicinamento di servizio e professione, medico e paziente” ritiene che spetti ai giovani “suggerire quel che manca nel palinsesto degli Stati Generali, la visione globale del problema”.

Egli afferma, inoltre, che gli Stati Generali della professione “hanno l'ambizione di disegnare una sanità a misura di cittadini e di professionisti” e che per far ciò sia necessario “un ragionamento sui limiti giuridici, le linee guida, i limiti economici, il costo delle decisioni...” allo scopo di “rendere più congruo il servizio sanitario con i diritti dei cittadini e con le esigenze professionali”. Ciò che pertiene al medico risulterebbe “un necessario adeguamento del curricolo formativo piuttosto antiquato”. 
Queste tesi, pur congrue e condivisibili, esprimono, a nostro avviso, solo una parte di quanto proposto dagli Stati Generali, in quanto, soprattutto con la lettura della presentazione delle 100 tesi del Presidente Anelli e dell’introduzione del Prof. Cavicchi, quello che abbiamo percepito essere una necessità incombente e, in quanto tale, proposito degli Stati Generali è la ridefinizione della professione medica su più fronti, al fine di dare una risposta risolutiva alla questione medica, fenomenizzazione attuale dei conflitti sociali, tecnici ed etici che incarcerano il medico; obiettivo, questo, diverso da quelli espressi dal Dott. Panti di “disegnare una sanità a misura di cittadini e di professionisti”, dal Dott. Muzzetto di “definire un nuovo servizio sanitario” (QS 5 marzo 2019) e dal Dott. Benato di “riformare gli strumenti metodologici” (QS 27 marzo 2019).

A cosa si ridurrebbero dunque gli Stati Generali della professione medica se non ad un grande convegno sulla riforma della sanità, magari sulla scia di quella che il Prof. Cavicchi ha chiamato “Quarta Riforma”? D’altro canto, si tratterebbe solo di aggiornare il profilo del medico (Muzzetto), adeguare il curriculum formativo (Panti), promuovere il ruolo del medico scientista (Benato).

Le difficoltà che incontriamo come giovani medici che si affacciano per la prima volta alla professione difficilmente verrebbero superate unicamente con una “riforma tecnica” del sistema, seppur attuando la “quarta riforma” avanzata dal Prof. Cavicchi. Anche se giovani e con scarsa esperienza abbiamo potuto cogliere l’urgenza di un intervento in merito alla sfida della complessità, della relazione con il malato, della singolarità del malato, il problema del paradigma inadeguato, di un metodo più flessibile, il problema delle evidenze fallaci, di conoscere il malato e non la malattia, ecc.

La società e la scienza sono cambiate, e dato che il medico è mediatore tra scienza e società, come possiamo pensare che risistemare e promuovere il tradizionale ruolo del medico sia sufficiente per risolvere tutte le questioni citate, e le molte altre non riportate?

Inoltre, pur accettando, come propongono i nostri colleghi più anziani, il terreno di discussione del ruolo professionale, riteniamo che esso non possa solo essere promosso ma debba essere, per essere davvero promosso, profondamente ripensato. Abbiamo accolto con entusiasmo la proposta avanzata dal Prof. Cavicchi di ridefinire il ruolo del medico quale “autore”, ovvero “colui che con razionalità e ragionevolezza ha la capacità e la facoltà di ripensare, se necessario, il prepensato nelle situazioni e nelle relazioni date”: concetto che risulta in piena contrapposizione con lo status vigente di medico amministrato, e che rappresenta, a nostro avviso, un’ottima via per rivendicare la perduta autonomia intellettuale (senza considerare le aggravanti che tale condizione subirebbe qualora le attuali restrizioni finanziarie e la privatizzazione di parti del sistema continuassero a rappresentare ostacoli insormontabili). Tuttavia, diventare autori, nel senso esposto nelle tesi, richiede evidentemente una riforma del paradigma, dell’idea di medicina e di medico, essendo questi ultimi espressione l’uno dell’altro.

Nelle 100 Tesi del Prof. Cavicchi spicca un capitolo, a nostro parere molto edificante, che tratta il cambio di definizione di Medicina: “non è più solo una scienza biologica ma è anche una scienza dell’organizzazione, della gestione, una scienza delle relazioni, della comunicazione, una funzione” di più variabili. Successivamente nelle 100 tesi Cavicchi avanza l’idea, innovativa e a nostro parere azzeccata, di Medicina della Scelta come percorso in cui medico e paziente attraverso una condivisione di conoscenza, razionalità, coscienza, ragionevolezza e corresponsabilità, arrivano a scegliere, insieme, un percorso clinico-terapeutico. Ispirate da queste letture, vorremmo proporre un ulteriore attributo alla definizione di medicina, ovvero arte della scelta di cura, estendendo il momento della scelta a quella che il medico nel pieno della sua conoscenza e coscienza deve operare nei confronti dei molteplici approcci diagnostici e terapeutici che la scienza mette a disposizione.
 
Oggi più di un tempo le lezioni all’università sono farcite di “le ultime evidenze hanno mostrato che…” “si è sempre pensato ad una correlazione tra la malattia X e un possibile agente Y, studi recenti hanno invece smentito questa ipotesi”. La nostra conoscenza appena instillata è insomma un mare di nozioni, alcune più vecchie, altre, molte, nuove. Abbiamo a disposizione molteplici esami diagnostici innovativi, vaste possibilità terapeutiche…ma la verità è che anche la conoscenza delle malattie si è approfondita e ogni singola affezione è in realtà caratterizzata da molteplici varianti, ognuna correlata, in percentuali variabili, a genotipi e fenotipi diversi, ognuno con un suo valore predittivo e prognostico. Ecco che la scelta che il medico si trova a dover affrontare deve tenere conto di tutto questo: paziente X affetto dalla malattia Y variante A con fenotipo N risponderà con buona probabilità al farmaco Z in prima linea.
 
Il Dott. Panti concorda col Dott. Benato quando quest’ultimo afferma che “Non c’è una crisi della medicina sul versante scientifico. Sul versante clinico c’è solo la necessità di una riscoperta della natura fondamentalmente interpretativa del processo clinico”. Considerando problematico la volontà di non definire una crisi della medicina sul versante scientifico, ma piuttosto, accettando l’evidente complessificazione della stessa, ci chiediamo se, a fronte di un tale ampliamento della conoscenza, sia sufficiente “rinnovare la natura interpretativa del procedimento clinico”. Messe di fronte ad un progresso così inarrestabile, risulta quasi naturale pensare che al medico, professione che ci proponiamo di svolgere al meglio delle nostre potenzialità, spetti, oggi, molto più che in passato, un’adeguata riflessione preliminare, in base alle informazioni in suo possesso riguardanti anamnesi, compliance, resilienza, vissuto del paziente, malattia di cui soffre, diagnosi e terapie disponibili, servendosi di questo progresso scientifico illimitato, con ragionevolezza e criterio, dando credito a ciò che di nuovo può essere utile, mai dannoso.
 
Con questo pensiero, ciò a cui aspiriamo, come giovani medici, con umiltà e ancora inermi di fronte ad ostacoli e difficoltà, è dunque, non solo un rinnovamento dei servizi e del valore dell’interpretazione nel processo clinico, ma anche conciliare l’appreso (paradigma) con la novità, mai tradendo il metodo scientifico ma adeguandolo al progresso e alle situazioni vigenti. D’altro canto, il Dott. Panti, pur affermando che il problema fondante ad oggi sia il rinnovamento del SSN, non nega l’esistenza di una “iperspecificità tecnologica che frammenta il sapere medico” e afferma con una certa perplessità che “oggi stiamo oggettivando la complessità”.
 
A nostro parere, non riconoscere che la realtà della natura, umana, animale e vegetale sia infinitamente complessa significa negare le conquiste della scienza moderna quando, attraverso un sistema di Next Generation Sequencing, si riescono a distinguere i diversi pannelli di espressione genica tumorali, consentendo l’applicazione di terapie personalizzate, ed evitando terapie con annessi side effects a pazienti con patologie non responsive; oppure quando attraverso una PCR è possibile identificare i ceppi virali più diffusi e pericolosi e realizzare in questo modo il vaccino più vantaggioso e lungimirante per la popolazione. Non possiamo in ogni caso non riconoscere l’importanza del metodo scientifico e delle linee guida che, frutto di concettualizzazione e schematizzazione, rappresentano il perno del nostro orientamento professionale.
 
Il Prof. Cavicchi riguardo il Metodo afferma che “non dovrebbe più essere considerato il mezzo attraverso il quale si rende conforme la malattia alla razionalità positivista della medicina, ma il mezzo attraverso il quale la razionalità della medicina si sforza di essere conforme alla complessità dell’uomo malato” rivendicando la “libertà del medico all’interno del metodo e non dal metodo”. Perfettamente in linea con il nostro pensiero, il Dott. Pizza (QS 26 marzo 2019) afferma che ciò non è possibile se non si “accetta un ruolo intellettuale del medico più avanzato di quello previsto dal paradigma classico, al punto da metterlo in condizione, di governare quella complessità che sfugge a qualsiasi metodo a qualsiasi procedura a qualsiasi linea guida”.
 
Si chiede, inoltre, il Dott. Panti se la razionalità delle procedure amministrative e cliniche possa aumentare la fiducia del cittadino. Riteniamo indispensabile, per questo scopo, l’impegno del medico nell’avviare un dialogo con il paziente, trarre da ciò delle informazioni “soggettive”, che consentano di contestualizzare i dati clinici; il medico dovrà saper interpretare quegli aspetti non manifesti ma deducibili. Attraverso il dialogo il medico potrà trasmettere la propria conoscenza al paziente, arrivare con lui alla scelta, condividendo con lui la responsabilità e chiarificando il concetto di fallibilità e incertezza dell’opera medica. Anche questo aspetto della professione, non scientifico e lontano da ogni assioma, potrebbe, secondo noi, contribuire alla ridefinizione del paradigma medico.

In conclusione, noi giovani medici del terzo millennio, sulla base delle prime esperienze professionali, sulla scia della transizione da una formazione universitaria alla realtà lavorativa che ci accingiamo ad intraprendere, siamo grati al Presidente dell’Ordine di Bologna, il Dott. Pizza, quando afferma che “Se si tratta di fare l’apologia del ‘900 gli Stati Generali è meglio non farli. Gli Stati Generali vanno fatti per ripensare il ‘900” e non solo per promuovere un ruolo che non cambia mai o peggio solo per dare una risistematina alla sanità sul cui destino nessuno oggi sarebbe disposto a scommettere.

Aderiamo con entusiasmo al progetto di cambiamento degli Stati Generali della FNOMCeO, convinte che esso non sia solo vantaggioso, ma soprattutto necessario: non potremmo esercitare una professione resa, dai tanti cambiamenti sociali, culturali, ed economici, sempre più complessa, con gli strumenti del 900, rimanendo agganciati ad un ruolo antico che risulta, ad oggi e per il futuro, seppur aggiornato, ormai inadeguato. Apprezziamo l’idea proposta dal Dott. Pizza nel suo articolo di intendere gli Stati Generali come un ponte tra il 900 e il terzo millennio.

Per noi che abbiamo tutta la carriera davanti, far fronte ad una società così evoluta ed esigente e ad un concetto così rivoluzionario di scienza, avendo a disposizione i mezzi del ‘900 rappresenterebbe non solo una condanna, ma anche una sconfitta.

Brenda Menegazzo e Gaia Zagolin
Giovani dottoresse partecipanti ai mercoledì filosofici della Fondazione Ars Medica OmceO VE


30 marzo 2019
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