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Carenza medici. Di chi è la responsabilità?

di Domenico Minniti

25 APR - Gentile Direttore,
adesso comincia, a proposito di carenza di medici e di criticità del SSN, puntuale come un orologio svizzero, il balletto delle responsabilità (Coletto), (Rotta). E dire che non è necessario ricorrere a chi sa quali ricerche - sonosufficientiquattrorapidicalcoli-per giungere alla conclusione che la pessima programmazione sanitaria, che dev’essere fatta risalire almeno a quindici anni addietro, sia da addebitare bipartisanagli schieramenti politici che in tutto questo periodo si sono alternati alla guida del Paese.
 
E che neanche chi era all’opposizione nel 2013 ed adesso governa, sia stato particolarmente propositivo nell’arginare il fenomeno che le organizzazioni sindacali di categoria, già da un bel po' di anni, andavano denunciando.
 
Ma a questi segnali d’allarme, in tutto questo tempo, come si è risposto?
 
Blocco del turn over, indiscriminato e particolarmente severo nelle regioni soggette a piano di rientro dal disavanzo economico che ha ridotto nel numero ed incrementato nell’età media, la popolazione della Dirigenza Medica ospedaliera.
 
Blocco del contratti, ultimo dei quali, come tutti ormai sanno, scaduto da dieci anni.
 
Demotivazione, anche come conseguenza della drastica limitazione delle possibilità di carriera secondaria alla riduzione, in molte Aziende, del numero di Strutture Complesse e di Strutture Semplici.
 
Condizioni di lavoro non più accettabili, per qualità e quantità, che stanno portando, coloro cui la normativa lo consente, ad abbandonare gli ospedali per dedicarsi a più salubri interessi o a ben più tranquille e remunerative attività.
 
Insomma, ancora fermi al cliché del medico missionario o immaginando evidentemente di avere a che fare coi proseliti del dottor Kildare, i nostri grandi esperti di economia e politica sanitaria, hanno programmato così attentamente la fidelizzazione degli studenti in medicina attraverso meritocrazia,  incentivi economici e condizioni di lavoro, che diecimila di questi hanno pensato bene, negli ultimi due lustri di emigrare all’estero.
 
Considerato che la formazione di un laureato in medicina e chirurgia costa mediamente centocinquantamila euro, facciamoci due conti su quanto profitto abbia tratto l’Europa, senza muovere neppure un dito, da questo fenomeno.
Ed a ciò, se poi vogliamo proprio fustigarci le carni, dovremmo aggiungere il prezzo pagato quando, dopo aver formato uno specialista, questi ha deciso di emigrare.
 
Se la salute è un diritto costituzionale, se una consistente aliquota di ciò che il cittadino guadagna viene da lui versata per sostenere i servizi il più importante dei quali è, fuor di dubbio, l’assistenza sanitaria e se, per garantire l’offerta di salute è necessario essere concorrenziali con l’estero ed acquistare a maggior prezzo i fattori produttivi (banalmente, i medici ed il personale sanitario in genere), allora occorrerà mettere mano al portafogli, ben sapendo, peraltro, che comunque è l’utente finale che, attraverso la fiscalità, paga - vuoto per pieno - il Sistema Sanitario, ed attende, o meglio, giustamente pretende, se è quando gli è necessaria, una risposta di qualità.
 
I nostri giovani emigrano in Europa, dove, ahinoi, sono maggiormente valorizzati e meglio retribuiti. E non è un caso se, ad esempio, tra le regioni che hanno più di tutte sofferto l’esodo, vi è il Veneto (Fonte Ansa.it - Salute & Benessere), terra virtuosa e particolarmente attenta a non allentare i cordoni della borsa, tanto da ricorrere addirittura alla Corte Costituzionale anche quando la norma, nello specifico l’art. 48 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, è sufficientemente chiara nel declinare le competenze economiche.
Ed i giovani professionisti fuggono, a riprova del fatto che il risparmio non sempre (per la verità, in sanità quasi mai) è una scelta strategicamente vincente.
 
Nelle more che chi ha le redini in mano in questo momento storico decida se sia meglio richiamare i pensionati in servizio (soluzione francamente irricevibile), sia meglio ricorrere al doppio canale e contemporaneamente assumere i medici in formazione secondo il ddl Cantù (creando in entrambi i casi i presupposti per un’inaccettabile sperequazione professionale ed economica tra professionisti aventi pari responsabilità) o, piuttosto, sia preferibile agire più a monte come suggerisce il ddl D’Uva (mettendo in preventivo un’attesa di diversi anni prima di cominciare ad intravedere risultati), forse, se focalizzassimo l’attenzione su una banale regola di mercato che tenga conto di domanda ed offerta, potrebbe avere una qualche efficacia la sottoscrizione di un contratto dignitoso con la Dirigenza Sanitaria. E proporre incentivi che possano trattenere nel pubblico i giovani (o addiruttura - hai visto mai - riportare in Italia parte di quei diecimila cervelli emigrati) resistendo al canto delle sirene che albergano nelle strutture private ed in quelle estere.
 
Si chiama strategia win win ed è particolarmente apprezzata nelle negoziazioni intelligenti. Nello specifico sarebbe bene che Governo e Regioni facessero uno sforzo per aggiungere un terzo win, il più importante di tutti: il cittadino.
 
Anche perché, in fondo, come diceva Henry Ford, “Non è l’azienda che paga i salari. L’azienda semplicemente maneggia il denaro. È il cliente che paga i salari”.
E lui, il cliente, si aspetta di vederlo, il prodotto.
 
Domenico Minniti
Presidente AAROI-EMAC sezione Calabria
Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani - Emergenza ed Area Critica

25 aprile 2019
© Riproduzione riservata

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