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Tecnologia per la Sanità o Sanità per la tecnologia?

di Ivan Favarin

19 OTT - Gentile Direttore,
prendo spunto dall’articolo del dottor Dal Maso dell’Accademia Nazionale di Medicina. Il ventaglio di temi trattati fa di quest’articolo quasi un trattato (perdonate il gioco di parole), una panoramica disamina di molti aspetti gestionali.
 
Anche in base a mie precedenti esperienze, mi permetto di rimarcare alcuni elementi: l’uso della numerazione X.0 (alla x sostituite voi il valore unitario che volete, di solito incrementa a ogni biennio) persino per descrivere il medico. Classificare la realtà come se vivessimo in un programma informatico con versioni, aggiornamenti (upgrade) ed emendamenti (patch) è un po’ pedissequo. Con il 2.0 ci siamo divertiti tutti, ma già suonava trito prima che uscissero proposte per il 3.0. Se penso che un tempo lo zero era la base su cui ragionare per investire (lo “zero base-budgeting” di Phyrr)...
 
La continua citazione di concetti in gergo gestionale di matrice anglosassone. Alcuni sono intraducibili (vedasi lo ZBB di cui sopra) ma perché infarcire così un discorso? L’uditorio può reagire indisponendosi o ignorarli del tutto: messaggio ricevuto sfocato. Oltretutto mi ricorda la parlantina degli entusiasti seguaci di guru come Tom Peters o altri, che tanto hanno plasmato il management (pardon, la gerenza) e gli yuppies (si può rendere con “paninari evoluti”?) anni 80-90. Il Sergio Vastano bocconiano li mise alla berlina in un noto programma televisivo.
 
Decifrata la sequela di concetti (per la quale occorrerebbe un MBA - specializzazione in economia aziendale), resta in questione di fondo: è meglio una valida tecnologia per la sanità o una sanità che cambia per la tecnologia. Non è il sofismo del maiale che tira il carretto o il carretto tirato dal maiale. È un problema che ho sperimentato di persona quando mi occupavo di sistemi informatici ERP (programmi aziendali per la gestione quasi totale di ogni attività e ogni divisione o settore).
 
C’era chi osannava programmi simili perché “finalmente costringeva a fare le cose con criterio” o perché “si dialogava fra realtà equipaggiate con ...[nome del programma]”. Altri notavano che questo aveva generato una mole di lavoro per i consulenti esterni, ma soprattutto costretto a stravolgere o terziarizzare attività anche ben organizzate. E non in nome di qualità o profitto altri concetti rapidi da dire ma lunghissimi e difficilissimi da realizzare (si fa presto a dire metodo Toyota: esserlo è ben altro). Stravolti per adeguarsi alla rigidità dei sistemi informatici.
 
Che davvero (nomen-omen) “in-formavano” sè stessi e il resto dell’azienda. Con tragici momenti di vera angoscia collettiva quando dico doveva passare a una nuova versione (pardon, release). Io di un programma ERP vidi morire la 2.0 e nascere la 3.0. E con esso morì la mia passione per quel lavoro. Per fortuna, in mezzo a mille codici e eccezioni, avevo ancora abbastanza cervello per laurearmi in infermieristica e ritornare agli umani.
 
In conclusione, ringrazio il dottore Dal Maso e tutti gli entusiasti del settore per avermi fatto riflettere. E a convincermi con ancor più forza che non vorrei mai più lavorare per adeguare me o i pazienti alla macchina, bensì contribuire a migliorare me e l’azienda e i processi per la salute dei pazienti. Anche perché, a differenza dei pur bravi consulenti che pullulavano nelle multinazionali, ritengo che il mio obiettivo ideale sarebbe quello di rendermi inutile. E con me ospedali e sistema sanitario. Significherebbe: obiettivo soddisfazione del bisogno di salute raggiunto al 100%. Ma la mia mission è impossible. Capish?
 
Ivan Favarin
CPS Infermiere

19 ottobre 2019
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