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Hodah a un saggio gentile. In morte di Mario Graev

di Gemma Brandi

19 OTT - Gentile Direttore,
l’ebraico hodah significa non solo riconoscere un debito e ringraziare, ma anche essere veritieri e onorare. Avverto il peso leggero di un simile dovere nei riguardi di Mario Graev. Egli non è più tra noi, ma la memoria di lui rimane in quanti lo hanno conosciuto e inevitabilmente amato. Non lo ebbi come docente di Medicina Legale. Lo era stato Vittorio Chiodi, diverso per carattere e scelte di campo, ma anche lui straordinariamente perspicace nel leggere l’animo degli studenti che sottoponeva ad esame e lieto quando vi rinveniva una onestà umana prima che intellettuale.
Mario Graev aveva un eloquio e uno stile grave e sorridente insieme. Era quieto, gentile, luminoso quanto ciascuno, può darsi, io di certo, aspira ad essere, spesso non riuscendovi. Ti guardava affettuosamente, ti ascoltava senza distrazione e coglieva il cuore del tuo pensiero con immediatezza fraterna. Dopodiché si metteva al servizio delle teorie che condivideva, con generosità semplice. Forse fu buona scuola per lui l’avere trascorso gli anni della seconda infanzia e della adolescenza sotto gli occhi di Don Facibeni, il benefattore fiorentino che ha allevato migliaia di minori sans aveu, senza padrone, privi di adulti di riferimento affidabili, facendone degli uomini. D’altra parte, quando ci si forma per somiglianza con il proprio nome, chiamarsi Facibeni deve essere un indubbio vantaggio. Meno, se si sceglie di muoversi in antitesi rispetto a tale significante. 
Mario Graev era un bambino abbandonato e non ne faceva mistero. Quel suo essere solo, quel suo essere costretto a portare il fardello amaro di un abbandono ante litteram, quella bastarditudine che ne minacciava l’esistenza, sono stati la sua forza, anche grazie al salutare coming out che lo portò a non mascherare le proprie origini, anzi a ricercarle. A venticinque anni, mentre svolgeva la sua opera nella Clinica Ostetrica della Università di Firenze, dove sapeva di essere stato messo al mondo, volle scoprire, per il tramite di una facile ricerca di archivio e dell’aiuto di una caposala, chi fossero i suoi genitori. Fu così che si scoprì figlio di un nobile russo e di una giovane donna, anch’ella russa, di nome Eva, che lo mise al mondo, lo diede a balia e poi sparì. Pare che i due avessero casa ad Alessandria d’Egitto. Un romanzo familiare autentico e non la fantasia di ogni essere umano, quando a un certo punto del suo sviluppo prova a immaginare di avere genitori diversi da quelli naturali.
 
Allevato in una dimora contadina, dove la miseria generava disperazione, il piccolo Mario sarebbe finito a lavorare nei campi, se una signora non avesse colto la sua perspicacia e non lo avesse aiutato a intraprendere un diverso cammino esistenziale, il percorso che lo avrebbe portato tra le braccia di Don Facibeni. Ardisco pensare che quella signora fosse stata catturata per un verso dalla corrispondenza tra l’acume del bambino e i suoi lineamenti fini, la figura flessuosa e slanciata, la carnagione chiara, lo sguardo trasparente, peraltro dalla discordanza tra questi aspetti e la condizione di povertà astiosa in cui si trovava immerso, come un parvenu. Una Fata Turchina, quella signora, che corrobora l’invito a credere nella bontà degli sconosciuti.
Quando fondai la rivista Il reo e il folle, con la pretesa di gettare una luce nel buio della ignoranza che dominava il tema della malattia mentale reclusa, il Professor Graev fu tra i pochissimi accademici italiani a schierarsi al mio fianco. Si era alla metà degli anni ’90 e lui non era uno psichiatra, ma comprese appieno l’importanza della azione intrapresa perché non fosse volgarmente negato un problema che la Legge 180 aveva collocato fuori delle competenze della Salute Mentale e dunque anche della psichiatria, lasciando alla Giustizia il compito di gestire la cura, oltre alla pena, di persone che soffrono e fanno soffrire.
Nel 2012 presentai una relazione al convegno voluto dall’Ordine dei Medici di Firenze in difesa della professione medica, surclassata dalla prepotenza politica, il cui testo diventò un articolo di Toscana Medica, dal titolo Il sogno del dottore, rintracciabile integralmente nella lettera che spedii al Direttore di Quotidiano Sanità e che fu pubblicata su questo giornale il 6 Gennaio 2018. Ebbene il Professor Graev, che da anni non vedevo, dopo avere letto il mio intervento su Toscana Medica, non esitò a chiamarmi per pronunciare poche parole semplici e avvertite, parole scaturite con immediatezza dalla mente del cuore: “Dottoressa cara, volevo dirle solo questo: se lei ha scritto quello che ha scritto, mi creda, potrà scrivere qualsiasi cosa!”. Era commosso il professore nel parlarmi e capivo che non avrebbe rinunciato in alcun modo ad esprimere il suo parere. Lo faceva anche per me, ma soprattutto lo faceva in quanto avvertiva che le mie parole erano utili ai più.
 
Per essermi stato vicino in maniera gratuita e sorprendente in quella circostanza, per avermi persuaso a insistere e a non mollare, per avere creduto nel bene comune, non posso che hodah il Professor Mario Graev, e cioè riconoscere il mio debito con lui, ringraziarlo, dire la verità e onorarne la memoria e con la sua quella di tutti gli uomini capaci di trasformare il proprio veleno interiore in un rimedio per sé e in un mezzo di guarigione per l’altro, come ebbe a dire Constantin Brancusi.   
 
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista

19 ottobre 2019
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