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Il dibattito tra le professioni non si trasformi in una “guerra santa”

di Luciano Cifaldi

23 DIC - Gentile Direttore,
con la puntualità e la precisione che gli è propria Ivan Cavicchi prova a stimolare il ragionamento sulla informazione al paziente, un tema questo che in realtà è solo una parte del più ampio dibattito inerente le professioni sanitarie, le loro competenze e prerogative. Numerosi fattori influenzano la relazione medico-paziente: la società, che con le sue modifiche strutturali, con le riforme del sistema sanitario, con la riduzione delle disponibilità economiche, con il crescente emergere di una cultura dei diritti individuali, influenza le dinamiche di cura; il diritto, che pone l’accento sugli aspetti contrattualistici del rapporto, basti pensare al tema del consenso informato; la deontologia professionale, il cui sguardo mette insieme argomenti e situazioni diverse quali l’autonomia professionale di ogni medico, l’attenzione all’asimmetria dei saperi e, quindi, di “potere” tra medico e paziente; la privacy che deve tenere conto non da ultimo anche degli aspetti comunicativi e della capacità empatica.
 
Oggi il medico ha perso parte della propria “autorità” ed anzi, a volere essere realisti, verrebbe da scrivere che la marginalizzazione della categoria medica, oltre che frutto di scelte scellerate della programmazione e della politica, trae origine da una sorta di autolesionismo della categoria stessa, incapace forse di rinnovarsi nella comunicazione, nella capacità di fare passare e di fare accettare il proprio messaggio. Incapace anche di rappresentare alla vasta platea di pazienti-malati-cittadini-utenti che nonostante qualche episodio di cronaca con protagonisti dediti più ai propri affarucci che alla attività di diagnosi e cura, la categoria di per sé è sana.
 
E si torna dunque al tema della comunicazione che si rivela ancora una volta un punto chiave in tale dinamica. Il processo informativo relativo alla malattia non è un atto unico ma un evento che si svolge progressivamente nel tempo.
 
E anche il tema della seconda opinione medica, ovvero il ricorso al parere di altro medico e/o ad altra istituzione al fine di confrontare, confermare o correggere una prima diagnosi o un'indicazione terapeutica, non è altro che un ulteriore aspetto del dibattito. Infatti è proprio considerando la possibilità di fornire una seconda opinione medica su di una qualsiasi problematica medico-chirurgica, che tale procedura assume una rilevante importanza nel caso di patologie gravi e invalidanti o di situazioni che pongono il paziente in pericolo di vita.
 
Questa pratica, non routinaria è in costante crescita. Ciò accade in tutte le discipline mediche ma particolarmente in oncologia a causa del carattere minaccioso della malattia, dell’enorme carico emozionale di aspettative e di speranze che la accompagna e delle possibili menomazioni conseguenti alle opzioni terapeutiche adottabili.
 
L’empowerment stesso, argomento del quale sono sin troppo pieni articoli, libri e convegni, rappresenta, o meglio dovrebbe rappresentare, una delle modalità mediante la quale un operatore sanitario, solitamente il medico e l’infermiere, dovrebbero approcciare a quanti rappresentano un problema di salute per fare in modo di offrire loro un aiuto che sia maggiormente efficace rispetto a quanto potrebbero fare se fossero lasciati da soli, sopraffatti dalle difficoltà anche di tipo burocratico e in preda all’impotenza tipica di chi intuisce di dovere affrontare un percorso irto di difficoltà.
 
L'accettazione della malattia così come il rapporto medico paziente è un processo dinamico.
La stessa acquisizione del consenso informato oltre ad essere una procedura obbligatoria per legge, rappresenta un momento di estrema delicatezza, in patologie a prognosi spesso infausta come accade in oncologia: tuttavia con opportuni accorgimenti di utilizzo può costituire un’efficace strumento per stabilire una proficua interazione con il paziente quando ad una opportuna cautela nell’atto informativo si accompagna la doverosa completezza dell’informazione. Completezza dell’informazione che, va detto, non è l’equivalente di informazione senza problemi.
 
Per svolgere efficacemente l'attività di comunicatore il medico deve prepararsi al ruolo. E' evidente che vada migliorata la capacità del medico di entrare in relazione ed in questo, parlo per esperienza personale, il ruolo dell’infermiere è insostituibile.
Medico ed infermiere devono lavorare insieme nel rispetto di ruoli e competenze ma sicuramente in maniera sinergica perché l’obiettivo è unico ed è comune: la tutela della persona e la tutela della salute del paziente. E l’acceso dibattito tra le professioni è opportuno che non si trasformi in una sorta di guerra santa della quale credo non si sente certo la mancanza.
 
L'obiettivo che si impone è semplice: imparare a comunicare oltre che curare.
Quanto sopra affermato è una realtà: il mondo della medicina non costituisce una eccezione.
Detta così è una bella cosa, anche se il lettore può trovare le stesse difficoltà di chi scrive a rappresentare un tema che a volte appare più da aula accademica che da corsia di ospedale mentre in realtà fa parte della attività clinica quotidiana.
 
Luciano Cifaldi
Oncologo medico, Segretario generale Cisl Medici Lazio
 


23 dicembre 2019
© Riproduzione riservata

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