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Nel documento degli anestesisti nessun darwinismo sociale

di Bruno Ravera

20 MAR - Gentile Direttore,
il documento della SIAARTI, pubblicato il 7 marzo ha sollevato, com’era prevedibile, i più svariati commenti. Vorrei chiederle di essere così cortese da consentirmi qualche ulteriore riflessione. In premessa, una precisazione. Io apprezzo molto i Padri Gesuiti che quando polemizzano con qualcuno (e capita spesso) per prima cosa riassumono fedelmente le opinioni che si accingono a contrastare. E’ un metodo di correttezza che dovrebbe essere seguito da tutti, e non sempre accade.
 
Ringrazio Ivan Cavicchi per la sua cortese risposta al mio precedente intervento (che in ogni caso confermo integralmente). Prendo atto (e non avevo dubbi) che nel caso da me ipotizzato ci comporteremmo tutti, lui, i colleghi della SIAARTI ed io allo stesso modo, però poi precisa “a condizione che la decisione di privilegiare, a parità di bisogno di cura, in una situazione estrema, i malati più giovani su quelli più anziani, deve essere una decisione politica”. Qui non siamo d’accordo.
 
Riaffiora il vecchio problema dei rapporti tra scienza e politica (oggi di fronte al Coronavirus). Sono consapevole che è difficile per me discutere col Prof. Cavicchi data l’abissale differenza tra noi di competenza e cultura. Detto questo, perché non sono d’accordo? E’ fuor di dubbio che la politica debba avere il ruolo determinante nell’indicare le coordinate cui ispirare la prassi (il riformista che non c’è). Altra cosa è definire il comportamento dei medici.
 
Facciamo l’ipotesi che la politica indichi un certo orientamento (per stare all’esempio, l’età dei pazienti) E se i medici non fossero d’accordo? Come si potrebbe imporre loro un comportamento che non condividono?
 
Temo che vi sia una contraddizione con un precedente piuttosto recente. Da una parte si invoca l’autonomia del medico (anche nei suoi organi istituzionali), nel caso della sentenza della Corte Costituzionale in merito al provvedimento di radiazione adottato dall’Ordine di Bologna nei confronti dell’ex assessore della Regione Emilia Romagna; e qui invece si contesta ad una società scientifica il diritto-dovere di proporre ai propri associati una linea di comportamento cui ispirare la propria attività professionale. Non mi quadra. (Anche se non è la stessa cosa)
 
Su Quotidiano Sanità  è stata pubblicata una notizia: “Il ministero della Salute detta le linee su come e quando rinviare le prestazioni ambulatoriali e ospedalieri non urgenti”. Nessuno si sognerebbe di contestare alla politica il diritto di dare queste indicazioni. Potrei anche aggiungere, per stare nell’attualità, l’esempio dell’uso delle mascherine, che sta diventando una vera e propria torre di Babele e che richiederebbe un indirizzo comune. E quindi è ovvio che la politica, recependo il parere dei tecnici, adotti una linea di condotta che poi si può tradurre in provvedimenti legislativi.
 
E già che ci sono, mi consenta, un commento all’intervista di Mons. Andrea Manto. Sono costretto a presentarmi. Sono un cattolico laico (non è un ossimoro), come direbbe il Prof. Flick o un cattolico adulto, come direbbero il Prof. Prodi e il Concilio Vaticano II e mi identifico in quella che Giovanni Fornero ha definito: bioetica cattolica.
 
Detto questo, non posso esimermi, sia pur con profondo rispetto, dall’esprimere il mio dissenso su alcuni punti dell’intervista. Nella risposta alla prima domanda, dopo alcune premesse condivisibili si afferma, con riferimento alla SIAARTI “….né si può affrontare la sfida di elaborare principi etici liquidando, unilateralmente e sotto la spinta dell’emergenza, la deontologia medica…..”.
Vorrei sommessamente chiedere su quale punto del documento ci si possa appigliare per sostenere una siffatta tesi.
 
Non è quindi calzante l’esempio fatto da Mons. Manto: “nell’ipotesi che ci sia un solo posto libero in una rianimazione e arrivano, a distanza di pochi minuti due pazienti intorno ai 60 anni di età, molto simili per gravità della situazione e possibilità di sopravvivenza”. Che fare?
 
Ebbene, non me ne voglia Mons. Manto; seguono 20 righe di spiegazioni, che a me sono parse molto vaghe e generiche, tanto che se mi fossi trovato in quelle condizioni non ho capito (magari per colpa mia) come mi sarei dovuto comportare.
Ripeto, per omaggio alla verità, che si sta discutendo di casi di particolare gravità, in cui si sono esperiti tutti gli altri tentativi, compresi il colloquio con i familiari e il concorso di altre professionalità, e si è nella tragica situazione di stabilire i criteri con cui utilizzare i posti letto di terapia intensiva perchè i pazienti che ne avrebbero sono più numerosi dei posti disponibili. Nessuno può obiettivamente sostenere che la posizione espressa dalla SIAARTI sia di risparmiare risorse.
 
Io, come ho già detto, ho 90 anni. Ebbene, dichiaro ufficialmente, come vere e proprie DAT, che se mi trovassi in una situazione come quella ipotizzata, non avrei alcuna difficoltà a dire ai medici di prepararmi per l’eternità.
Detto questo, non mi scandalizzo che, a parità di condizioni di gravità e di prospettiva di sopravvivenza, si privilegino i più giovani. Questa non è discriminazione ma scelta eticamente motivata. Il problema è di fare tutto il possibile per assistere al meglio tutti. E quando non si ci riesce? Giova ripeterlo: “ad impossibilia nemo tenetur”. Sarebbe veramente strano un diverso comportamento.
 
E per concludere: come si fa a dire, nella su citata intervista che “il first come, first served” è un principio di giustizia universale che regola tutti i rapporti umani”?
E’ un’affermazione francamente inaccettabile. “Summum ius, summa iniuria” avrebbero detto gli antichi.
Pensiamo, ad esempio ai P.S. ospedalieri, quando al di fuori dell’emergenza, affluiscono tutti i tipi di pazienti, tanto da doverne disciplinare l’afflusso, una volta con i codici di vari colori e oggi con i numeri.
 
Il principio affermato legittimerebbe le proteste (non gli atti di violenza sempre inammissibili e condannabili) dei familiari di quei pazienti che vedono il loro congiunto scavalcato, sia pur per condizioni di maggiore gravità, da chi è arrivato dopo.
Vorrei qui ripetere il giudizio di Don Milani sull’ “iniquità di fare parti uguali tra disuguali”.
Sono convinto che il “first come”, non sia comunque un criterio accettabile. E perché stabilire allora, com’è sacrosanto, che in un naufragio, sulle scialuppe di salvataggio, salgano prima le donne e poi i bambini (io direi prima i bambini e poi le donne?)
Anche nel Vangelo di Giovanni è detto che all’alba della Risurrezione il discepolo giovane è arrivato prima di Pietro, ma lo ha atteso per entrare insieme nel sepolcro vuoto.
 
Non c’è bisogno di aggiungere che le altre considerazioni di Mons. Manto sono pienamente condivisibili, a partire dalla forte denunzia che “in altri Paesi si propone già da tempo di escludere gli anziani dalle cure più costose per ridurre le spese sanitarie”.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: ma perché un ex vecchio Primario di cardiologia è così interessato alle opinioni degli anestesisti rianimatori? Semplice. Perché ho fatto anch’io certe esperienze.
 
Nei primi passi del famoso Gissi, non sempre avevamo piena disponibilità della streptochinasi, e qualche volta, sia pure molto di rado, ci siamo trovati nella necessità di decidere quale fosse il malato da arruolare nella sperimentazione. Credo che ci siamo ispirati oltre che alla coscienza anche al buon senso “che un dì fu caposcuola e ora è morto affatto. La scienza sua figliola l’ha ucciso per veder com’era fatto”.
 
Premetto che Cavicchi ha perfettamente ragione quando dice che per parlare della battaglia di Waterloo non è necessario averla combattuta. E’ come se si dicesse che per curar bene un infartuato bisogna prima aver avuto un infarto. Ma anche Cavicchi converrà che una cosa è discutere, meritoriamente, di problemi teorici che hanno una ricaduta sulla prassi, altra cosa è la responsabilità di chi opera sul campo tra mille difficoltà, ispirandosi a motivazioni etiche.
 
Conclusione: è possibile che i responsabili della SIAARTI siano tardi discepoli del Dr. Mengele, di non venerata memoria. Ma se è così, essi sono degli abilissimi simulatori, perché nel loro documento non vi è alcuna traccia di discriminazioni aprioristiche e men che meno di darwinismo sociale.
 
Nessuno contesta a chicchessia il diritto di intervenire su problemi anche non di sua stretta pertinenza, a condizione che non si dica come Madame de Staël: “le opinioni si dividono in due grandi categorie: le mie e quelle sbagliate”. D’accordo?
 
Bruno Ravera
 

20 marzo 2020
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