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Coronavirus. Tutti i nostri dubbi sulla finalità “reale” dei test sierologici al personale sanitario

di Andrea Bottega

Bottega: “Se l’intenzione è quella di testare il personale non con lo scopo di stabilirne l’eventuale positività e, quindi, i rischi per loro e i pazienti con cui entrano in contatto, ma soltanto per reclutare unità da inserire nei reparti Covid, senza protezioni, è chiaro che siamo ormai allo sbaraglio”

01 APR - Gentile Direttore,
nei giorni scorsi il Nursind, ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio, alla Conferenza delle regioni e al Garante della privacy in merito all’esecuzione, in via prioritaria, di test sierologici al personale sanitario allo scopo di verificare eventuali immunità contro il coronavirus.
Tale test pare non sia finalizzato a stabilire la positività alla malattia del dipendente, e quindi sapere se è infetto e allontanarlo dal lavoro.
 
Tale test è finalizzato a stabilire se il sanitario sia “immune” al virus e pertanto possa andare a diretto contatto con pazienti COVID senza contrarre, in linea teorica, la malattia. Questo dato, se non correttamente protetto e condizionato, potrebbe essere utilizzato dal datore di lavoro per adibire all’assistenza dei pazienti Covid infermieri che siano risultati immuni e - ovviamente speriamo non succeda – in caso di carenza di DPI venga considerata protezione sufficiente il risultato del test sierologico.
 
Abbiamo chiesto se è intenzione del Governo o di qualche Presidente di regione percorrere questa strada, da Nursind naturalmente non condivisa. Questo sospetto parte anche da alcune dichiarazioni di presidenti di regione che dicono che il test sarà fatto prioritariamente a tutto il personale sanitario e non a un campione di esso o alla popolazione.
 
Così come abbiamo sentito dire da altri che lo scopo è quello di poter far tornare al lavoro i dipendenti. Se si considera che le attuali norme non prevedono la quarantena per il personale sanitario ma solo l’isolamento in caso di accertata positività (la Regione Lombardia non ha effettuato per più di un mese il tampone ai sanitari asintomatici) non si capisce chi deve tornare a lavorare o, piuttosto, sembrerebbe chiaro che si individua un gruppo di lavoratori che, se a contatto con pazienti Covid positivi, anche senza DPI non rischierebbero di contrarre la malattia.
 
Nursind ritiene che sia importante chiarire ai sanitari diversi dubbi considerato che con le poche conoscenze sul virus che abbiamo (ci sono alcuni casi di recidiva e non sappiamo se l’immunità che si sviluppa è temporanea o definitiva) non deve essere messa a rischio la salute e la vita degli infermieri e degli altri sanitari. Vogliamo sapere se c’è chiarezza, a livello scientifico, sul tipo di “immunizzazione” che si realizza. Ogni collaborazione sindacale che miri alla tutela dei lavoratori è per noi ben vista ma non si può prescindere dalla chiarezza della finalità dei test diagnostici e dell’utilizzo del risultato in termini di difesa della salute degli infermieri lavoratori.
 
La “schedatura” dei lavoratori in base alla “immunizzazione” ai fini lavorativi ha il vago sapore di un metodo di selezione dei lavoratori contrario ai basilari principi etici di ogni società civile.
 
Pertanto abbiamo chiesto al Governo e all’Istituto superiore di sanità di sapere: se tali test vengono svolti per finalità scientifiche, da quale comitato etico eventualmente sono stati autorizzati e se è garantito l’anonimato del campione. Al Garante della privacy abbiamo chiesto di sapere: chi è titolato a trattare il dato (il datore di lavoro? Il direttore di UOC? Il medico competente?) e per quali finalità può essere trattato, se al dipendente deve essere chiesto il consenso informato per la raccolta del dato e se il dipendete può rifiutarsi di svolgere l’esame.
 
Appare chiaro inoltre, ed è emerso in più casi durante questa emergenza, che il ruolo del medico competente sia stato completamente ignorato. Il trattamento diagnostico sul personale sanitario ha avuto altri attori. Abbiamo anche avuto casi di direttori di Unità Operativa che hanno richiamato a casa infermieri dalla quarantena comunicando la negatività del tampone. Ci chiediamo con quale autorità hanno avuto accesso al dato di salute del lavoratore? Ci chiediamo chi ha l’autorità per obbligare il dipendente a sottoporsi al test immunologico.
 
Riteniamo che superiore al diritto positivo sia il diritto naturale di tutelare la propria vita.
Riteniamo, in ogni caso, che l’infermiere non debba accedere alle aree COVID senza i necessari dispositivi di protezione individuale. Se ciò sarà richiesto, anche sulla base di un test immunologico, riteniamo sia doveroso e secondo il diritto naturale la disobbedienza civile.
 
Andrea Bottega
Segretario nazionale Nursind

01 aprile 2020
© Riproduzione riservata

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