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Covid. I dati non migliorano, la comunicazione nemmeno

di Claudio Maria Maffei

12 GEN - Gentile Direttore,
è evidente come le misure restrittive imposte dal Governo e, conseguentemente  (magari obtorto collo), dalle Regioni non abbiano avuto l’effetto sperato nei confronti della pandemia. Lo evidenziano bene gli ultimi dati quotidiani pubblicati ieri e la necessità di adottare misure ulteriormente restrittive previste nei prossimi atti governativi.
 
Vale però a questo punto la pena di chiedersi se non ci siano state lacune gravi nella impostazione della comunicazione del rischio ai cittadini vista la evidente inefficacia del modo in cui essa è stata fino ad oggi più o meno consapevolmente condotta. E’ evidente che qui servono competenze diverse da quelle esclusivamente epidemiologico-organizzative che personalmente e modestamente sono in grado di esprimere. Ma alcune considerazioni che usano questo punto di vista è possibile e forse utile farle.
 
Innanzitutto va ripensato il sistema di attribuzione delle fasce di rischio che ha almeno due caratteristiche negative: deresponsabilizza il livello “locale” che vive tale attribuzione come un vincolo imposto dal Governo centrale e non come uno strumento di contenimento condiviso e responsabile del rischio e l’utilizzo di criteri apparentemente cervellotici, perché il sistema “oggettivo” dei 21 indicatori (che è tutt’altro che oggettivo e manco ne ha 21) e il famoso (che agli occhi dei cittadini diventa “fumoso”) indice Rt tali appaiono -cervellotici- a chi ha la vita condizionata dalle misure collegate a quei criteri. Occorre pensare ad una classificazione delle fasce di rischio che responsabilizzi le comunità locali e quindi in qualche modo le renda più attive e consapevoli nella scelta deklle misure da adottare.
 
In secondo luogo va migliorata la comunicazione del rischio che viene fatta con dati ripetuti in modo ossessivo e spesso senza alcun significato, con impatto emotivo pari a quello di un elenco del telefono se ancora ci fosse e da parte di persone spesso prive di autorevolezza e competenza (come i covidologi laici che impazzano sui teleschermi a mo’ di  compagnia di giro). Si prenda il famoso indice di contagio sul rapporto tra tamponi positivi e tamponi totali che è ancora sulla cresta dell’onda pur essendo privo di un fondamento di buon senso epidemiologico. Occorre passare ad una comunicazione che valorizzi i dati locali (e quindi più diffusa), che racconti storie e non solo numeri e venga  fatta da persone che sanno quel che dicono e sanno come dirlo. E quindi meno politici e meno compagnia di giro. E magari più testimonial legati alla realtà locale (da marchigiano Neri Marcorè per noi è perfetto, anche se nessuno glielo ha ancora chiesto).
 
Per terzo ricordo l’importanza di una responsabilizzazione di tutti i cittadini rispetto ai loro comportamenti. Non credo sia chiaro a molti di loro che i loro comportamenti individuali in questa fase debbono prescindere dal colore della fascia di rischio della loro Regione. Questa condiziona i loro “movimenti”, ma non influisce o non dovrebbe influire più di tanto sui loro “comportamenti” di base in termini di mascherina, distanza sociale e igiene personale. Se tutta l’attenzione è spostata su ciò che non si può fare in termini collettivi e sociali (anche qui gli aspetti cervellotici abbondano in termini di limitazioni orarie, numero e tipologia delle persone ammesse a tavola, ecc.) si sottrae peso a ciò che si deve fare in una dimensione più individuale e personale. E poi ci lamentiamo fino a scandalizzarci che ci sono le movide.
 
Perché non promuovere come ai primi tempi dell’AIDS la logica e la pratica delle “precauzioni universali”, quelle che devi prendere assumendo che chiunque abbia un contatto a rischio con te possa trametterti l’infezione? Introdurre e diffondere una semplice checklist per guidare e monitorare i comportamenti individuali potrebbe avere un impatto simile a quello che ebbe l’introduzione di una checklist per il lavaggio  delle mani nel controllo delle infezioni chirurgiche come dimostrato e raccontato da Atul Gawande che alle checklist ha dedicato un libro. Libro che sull’uso delle checklist fornisce molti altri esempi.
 
Ricapitolando: la parola chiave è responsabilizzazione. Nella scelta delle misure di contenimento della pandemia e nella adozione dei comportamenti sociali ed individuali che la condizionano. Ci sono nuovi e ampi spazi di comunicazione ed intervento da esplorare.
 
Claudio Maria Maffei
Coordinatore scientifico di Chronic-on

12 gennaio 2021
© Riproduzione riservata

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