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Riforma assistenza territoriale. Se si dimentica il medico di famiglia

di Nicola Rosato

23 LUG - Gentile Direttore,
QS del 13 luglio scorso ha pubblicato una prima bozza di riforma dell’assistenza sanitaria territoriale redatta da AGENAS, ora all’esame della Cabina di regia del Patto per la salute. Sulla bozza le regioni avrebbero espresso “più di una perplessità”. Non ne conosciamo il tenore, ma la lettura del testo Agenas le rende plausibili per diversi aspetti. QS stesso, d’altronde, ne esprime una: il futuro “incerto” degli studi dei medici di famiglia. È il cuore del problema.
 
La pianificazione sanitaria italiana è sbilanciata, lo è stata sempre, sul governo dell’offerta di risorse per i servizi: ospedali, poliambulatori, presìdi residenziali e semiresidenziali, rete di emergenza urgenza territoriale, tecnologie e personale. Il governo della domanda resta sullo sfondo, sfiorato da prassi discutibili per determinare “i fabbisogni”. Ma non c’è programmazione se domanda e offerta di servizi e di prestazioni non procedono parallelamente.
 
La mancanza di un mercato sanitario e di una mano invisibile che regoli l’incontro di domanda e offerta dei servizi rende necessaria una mano visibile, che è e non potrebbe non essere il medico di famiglia. Non a caso ciascuno di noi dispone di un medico per ventiquattro ore ogni giorno.
 
Il punto debole del SSN è che, col tempo, è stata messa in ombra la funzione di difensore e di custode degli interessi del paziente secondo i princìpi internazionali e nazionali che regolano la professione del medico di famiglia (WHO, 1978; WONCA Europe 2002): educa alla salute, individua i bisogni, prende in carico, sceglie i percorsi di cura, assicura la continuità assistenziale, valuta i risultati dei processi diagnostico terapeutici. È lui il vero perno del sistema. 

Il documento Agenas trascura la funzione dei medici di famiglia per il governo della domanda. Forse dandola per implicita. Ma così facendo sminuisce il ruolo del distretto nel governo clinico delle aziende sanitarie, che si esprime nel Piano attuativo territoriale redatto da un Ufficio di coordinamento, al quale partecipano le rappresentanze dei medici di famiglia e dei comuni per l’integrazione dei necessari servizi sociali con quelli sanitari. Il distretto è soltanto marginalmente sede di erogazione diretta dei servizi e delle prestazioni.
 
La sua principale missione è – invece – quella di rilevare la domanda sanitaria di un determinato ambito territoriale e di indirizzarla verso i trattamenti appropriati. La domanda sanitaria collettiva, però, scaturisce dalla sommatoria dei bisogni individuali, che soltanto il medico di famiglia può rilevare capillarmente.
 
Con il Piano il distretto assicura i servizi di assistenza primaria (quindi, il distretto non esiste o, meglio, è altra cosa senza i medici di famiglia) e coordina le proprie attività con quelle di tutti gli altri dipartimenti e servizi aziendali, per garantire l’erogazione delle prestazioni ospedaliere, specialistiche ambulatoriali, consultoriali, di prevenzione e cura delle dipendenze patologiche, residenziali e semiresidenziali per anziani e disabili, di assistenza domiciliare, di salute mentale e di sanità pubblica (articoli 3-quater, 3-quinquies, 3 -sexies del d.lgs. 502/1992, testo vigente).
 
È quella che oggi viene chiamata funzione di committenza. Ma il committente chi è? La Usl a livello di obiettivi strategici, tramite il distretto, questo non si discute. A livello di gestione operativa, invece, se effettivamente si vuole ricostruire l’assistenza territoriale, e in parte anche ospedaliera, che abbiamo visto barcollare sotto la pressione di Covid-19, il committente ultimo dei percorsi di cura e assistenza sarà il medico di famiglia che erogherà direttamente i trattamenti più comuni e che “acquisterà” gli altri.
 
Si pone, quindi, la questione di quale sia la migliore organizzazione della professione. Non è più possibile immaginare un medico single handed. Lo strumento principe è lo studio medico associato, istituto già presente nelle convenzioni nazionali, ma poco (e talvolta male) applicato. Da qui bisogna ripartire: assistenza primaria svolta in forme convenienti di medicina di associazione, intorno alle quali devono essere costruite le necessarie strutture distrettuali di supporto e di servizio, che il Piano nazionale di ripresa e resilienza chiama Casa della comunità.
 
Agenas fa un ragionamento capovolto. Le Case di comunità (CdC) si fanno con una équipe multidisciplinare standard e in esse occorre “permettere” (pagina 12) anche le forme organizzative della medicina di famiglia. Permettere, suggerisce un’adesione facoltativa o eventuale, che fa temere un cambiamento nominalistico delle cose ma non della loro sostanza attuale. Può darsi che il documento porti a questo dubbio in maniera non intenzionale, ma è necessaria una più chiara formulazione. L’assistenza primaria nella forma associata è il dominus della CdC., non una sua possibile componente.
 
Più avanti (pagina 16 della bozza Agenas) apprendiamo che la CdC gestisce un budget. Ma andrebbe specificato che si tratta del budget delle strutture di supporto e di servizio agli studi dei medici associati, distinto e diverso dal budget delle associazioni stesse (articolo 8, comma 1, alinea b-ter, del d.lgs. 502/1992), perché sarà sempre il medico di famiglia il prescrittore finale di accertamenti diagnostici e ricoveri ospedalieri, farmaci, cure riabilitative e altre forme di assistenza. Il che ha implicazioni non trascurabili sull’organizzazione e sul funzionamento della CdC. Non aver indicato la separazione dei due budget sembrerebbe avallare l’ipotesi di un rapporto di lavoro subordinato dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta. Il che, se fosse vero, non lascerebbe perplessi, ma basiti.
 
Un po’ d’ordine andrebbe anche messo nella dotazione e gestione dei servizi. L’Unità speciale di continuità assistenziale (USCA) è configurata come una struttura e non come una funzione complementare ed integrabile con quella dell’infermiere di comunità. Taluni standard di dotazione di personale sono approssimativi.
 
Per quanto concerne l’assistenza domiciliare, asserendo che “la responsabilità complessiva dell’organizzazione è affidata ad un dirigente designato dalla Asl” tralascia ancora una volta la responsabilità del medico di famiglia. Un Hospice ogni distretto di centomila abitanti innalza sensibilmente lo standard di riferimento, senza correlazione con la domanda oggi espressa. Nulla si dice di come la nuova offerta di servizi interferirà su quella attuale, territoriale ed ospedaliera, se sia neutra o meno. Non c’è la minima stima dei costi cessanti e dei costi nascenti di esercizio del modello organizzativo di assistenza territoriale proposto, né degli investimenti strutturali e tecnologici.
 
Abbiamo dunque un canovaccio di discussione, meritevole di ulteriori analisi e approfondimenti. Che possono venire dalle buone pratiche nazionali e dallo studio di modelli internazionali. Tuttavia la complessità della riforma fa emergere soprattutto l’urgenza di rinnovare la visione organica del servizio sanitario con un Piano sanitario nazionale, di cui siamo privi ormai da troppo tempo.
 
Un Piano che non si limiti a giustapporre, ma colleghi saldamente i tre pilastri – la sanità pubblica, l’assistenza distrettuale e l’assistenza ospedaliera – che sorreggono paritariamente l’arco del nostro prezioso servizio sanitario.
 
Nicola Rosato
Analista economico della PA, socio dell’Associazione di Valutazione Italiana
 

23 luglio 2021
© Riproduzione riservata

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