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La riforma dell’assistenza territoriale e quella ‘dimenticata’ centralità del medico di famiglia

di Ornella Mancin

27 LUG - Gentile Direttore,
da medico di famiglia ho letto con attenzione il documento dell’Agenas sull’Assistenza territoriale e ne condivido l’impianto e i principi base in particolare:
- La necessità di applicare i Livelli essenziali di assistenza “riducendo le disuguaglianze, e contestualmente costruendo un modello di erogazione dei servizi condiviso ed omogeneo sul territorio nazionale”.
- La necessità di “tutelare la salute dell’intera popolazione e non solo di coloro che richiedono attivamente una prestazione sanitaria o sociale”
- La necessità di adottare “un modello di stratificazione comune su tutto il territorio nazionale” per permettere “lo sviluppo di un linguaggio uniforme che vuole garantire equità di accesso ed omogeneità di presa in carico”
- La necessità di superare il modello di lavoro attuale nel territorio con medici di famiglia soli e oberati di richieste e di creare delle équipe multiprofessionali che nel rispetto dei ruoli e delle competenze potranno garantire la presa in carico del soggetto

Molti di questi elementi erano presenti già nella legge Balduzzi (2012) a cui la Regione Veneto si è ispirata per la creazione delle Medicine di gruppo integrate che hanno permesso di fronteggiare un po' meglio la pandemia di Covid.

Il progetto prevede, se non capisco male,  oltre alla nascita delle Case di Comunità anche la permanenza delle “aggregazioni della Medicina Generale e Pediatria di Libera Scelta, quali le AFT (aggregazioni funzionali territoriali) e UCCP (unità complesse delle cure primarie), medicine di gruppo integrate, con sede fisica all’interno delle Case della Comunità, oppure a questa collegate funzionalmente, in qualità di strutture spoke, per quei territori disagiati e a minore densità abitativa”, segno evidente che non sono strutture da smantellare ma da valorizzare.

Se in linea di principio quanto descritto dal documento è condivisibile le perplessità nascono nella sua concretizzazione a cominciare dai numeri stabiliti.
Ottimo il riconoscimento che le Case di Comunità possono variare nei numeri a seconda dei territori (previste Case di comunità di 35.00 assisiti nelle metropoli e 10-15.00 nelle zone rurali o disagiate) ma come si sposa con il PNRR che prevede il finanziamento di appena 1228 case di Comunità in tutto il territorio Nazionale?

 Si propone che rimangano le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziali) che tanta importanza e tanto aiuto hanno dato durante questa pandemia, ma davvero ne può bastare una ogni 100.000 abitanti? Con questi numeri potranno realmente garantire la “presa in carico e follow-up dei pazienti domiciliari durante focolai epidemici, garantendo una risposta rapida e flessibile effettuando accertamenti diagnostici specifici e relativi interventi terapeutici”?

Ancora più dubbi nascono nel leggere che è previsto un unico Dipartimento di prevenzione ogni 500.000 abitanti. Pensavo che la pandemia avesse messo in luce quanto l’attuale depotenziamento dei servizi di prevenzione abbiano pesato su tutta la gestione pandemica: tracciamento saltato quasi subito, difficoltà di raggiungere i soggetti positivi che guarivano prima che qualcuno li contattasse, mancate certificazioni di guarigione con difficoltà attuale di generare il Green Pass, senza poi parlare della necessità di coinvolgere i medici di famiglia a fare i tamponi.

Come si può pensare che sia sufficiente 1 dipartimento di Igiene ogni 500.000 abitanti?

E che dire di un Consultorio famigliare ogni 100.000 abitanti? Quale prossimità può esserci per un servizio che dovrebbe essere un aiuto essenziale alle donne e alle famiglie?

Ma il documento Agenas è carente soprattutto riguardo ai medici: non si parla in nessun punto di quanti assisiti avranno in carico i medici di famiglia e di quale sarà il loro ruolo e il loro inquadramento all’interno delle Case di salute, né se i medici di medicina generale potranno mantenere i loro studi o se finiranno tutti assorbiti all’interno di queste nuove strutture. Non è chiaro se resterà in essere il rapporto convenzionato e il rapporto fiduciario tra medico e paziente. Non viene stabilito funzione e numeri di medici che si occuperanno dell’assistenza domiciliare Su questi temi cruciali il documento sembra sorvolare.

Mentre per esempio viene scritto con chiarezza che ci dovrà essere 1 infermiere di comunità ogni 2500 assistiti.

Questa mancanza di dati certi sui numeri e la conseguente spesa prevista per i professionisti è stata oggetto in questi giorni anche di una presa di posizione della Fnomceo che in una mozione afferma che “Le rilevanti risorse impegnate serviranno a potenziare le strutture o a sostenere interventi di carattere tecnologico che di per sé non sono sufficienti a determinare un processo riformatore che al SSN necessita. Senza un investimento sui professionisti non si migliora il sistema”.

Spiace che chi sta lavorando per una riforma molto attesa, purtroppo senza coinvolgere chi la professione la vive nei territori, non colga il valore e la centralità del ruolo del medico, nonostante la fatica e l’impegno dimostrato dai medici di famiglia in questa pandemia e il grosso tributo di vite umane. Come si può pensare a una riforma della sanità territoriale senza tener conto dei medici?
 
 
Ornella Mancin
Medico di famiglia

27 luglio 2021
© Riproduzione riservata

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