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Medicina. Dall’imbuto “formativo” all’imbuto “lavorativo”

di Carlo Palermo

02 SET - Gentile Direttore,
recentemente il Ministero dell’Università e Ricerca ha incrementato gli ingressi al corso di laurea in Medicina e Chirurgia portandoli a 14.000 all’anno. Questo significa che i futuri giovani Colleghi, concretizzandosi l’iscrizione nell’anno accademico 2021/2022, dopo aver affrontato un lungo e duro percorso di studio e di apprendistato di alta qualificazione, saranno pronti per entrare nel mondo del lavoro nel 2032/2033. Non tutti, purtroppo. Gli abbandoni durante il periodo di formazione sono valutabili mediamente intorno al 10%.
 
Quindi circa 13.000 studenti raggiungeranno l’agognata meta. Si può prospettare che circa 2000 di loro seguiranno il corso di formazione per la Medicina Generale e 11.000 acquisiranno il titolo di specialista, ovviamente solo se sarà disponibile un numero adeguato di contratti per superare l’attuale “imbuto formativo”. Il recente finanziamento per il prossimo concorso di ben 17.400 contratti di formazione specialistica post laurea, fortemente voluto dal Ministro Speranza, lascia ben sperare sul superamento di quel limbo fatto di sottoccupazione e precarietà in cui sono ingabbiati attualmente quei medici laureati che non riescono accedere ad un percorso formativo post lauream indispensabile per entrare nel mondo del lavoro.
 
Se guardiamo alle dotazioni organiche attuali nelle strutture pubbliche del servizio sanitario, rispetto a quelle presenti nel 2009, all’inizio della crisi finanziaria, mancano 8.000 specialisti, per il blocco del turnover avviato con la Legge 122/2010. In base agli studi Anaao, entro il 2025 rischiamo di andare incontro ad un ulteriore depauperamento professionale per gli errori nella programmazione dei fabbisogni specialistici. Infatti, le uscite per i raggiunti criteri di pensionamento, circa 50 mila specialisti tra il 2018 e il 2025, ma anche in conseguenza degli abbandoni anticipati per la forte attrazione esercitata dal privato e la scarsa valorizzazione economica di chi lavora nel servizio pubblico, non saranno compensate da un adeguato numero di specialisti formati dall’Università.
 
Hanno inciso negativamente nella programmazione, da un lato, scelte più attente ad interessi particolari e autoreferenziali rispetto a quelli di sistema, dall’altro, il ridotto finanziamento negli anni passati dei contratti di formazione a causa delle politiche di tagli nel bilancio dello Stato avviate dopo la crisi finanziaria del 2009. Il fenomeno dei concorsi senza partecipanti per posti in ospedali periferici ne è la dimostrazione più eclatante. Le maggiori carenze si prospettano per la Medicina e Chirurgia di Urgenza e Accettazione, Anestesiologia e Rianimazione, Chirurgia Generale, Ortopedia, Pediatria, Psichiatria.
 
Come si evidenzia dal grafico, il fabbisogno di specialisti nel SSN per coprire il turnover dopo il 2030 sarà intorno a 3000/anno, scendendo a 2000 nel 2034. Numeri più fisiologici per garantire la stabilità e la qualità organizzativa delle strutture e per la sostenibilità dei sistemi previdenziali, rispetto al vero e proprio esodo dal servizio pubblico che stiamo osservando nella fase storica attuale per l’arrivo all’età del pensionamento dei professionisti assunti intorno alla costituzione del SSN (nati dal 1950 al 1959 nella curva del grafico) e per l’accelerazione delle uscite prodotta da “Quota 100”.
 

 
Un contributo importante alle dimissioni dal SSN, anche prima del raggiungimento delle soglie pensionistiche, è dato dal peggioramento delle condizioni di lavoro negli ospedali pubblici legato alla drammatica riduzione del personale in servizio e alle conseguenze della pandemia che ha comportato un pesante stress psico-fisico per tutto il personale e, infine, dal forte richiamo esercitato dal lavoro nelle strutture private dove si trattano casistiche in elezione e con tempi di lavoro che permettono una maggiore conciliazione con la vita familiare e sociale.
 
La risposta a queste problematiche non può essere un incremento, oggi, degli ingressi al corso di laurea in mancanza di una seria e attenta valutazione relativamente a quale potrebbe essere la richiesta di medici specializzati dopo 10/11 anni.
 
Se consideriamo che gli specialisti che scelgono un rapporto di lavoro diverso da quello di dipendente all’interno del SSN, preferendo altri settori per la loro attività - come specialistica ambulatoriale, carriera universitaria, privato convenzionato e non, strutture estere, impiego nelle industrie del settore - sono circa il 30/40 % di quelli che annualmente acquisiscono il titolo, possiamo stimare nel periodo successivo al 2030, un fabbisogno annuale complessivo di 5000 unità.
 
Si può aggiungere un margine di errore intorno al 20%, arrivando ad un fabbisogno valutabile in circa 6.000 specialisti. Il MUR propone di formarne 11.000. Per 5.000 di loro sarà problematico trovare sbocchi lavorativi in Italia. In 5 anni saranno 25.000. Dall’ “imbuto formativo” passeremo ad un “imbuto lavorativo”, una condizione che abbiamo già vissuto tra il 1970 e il 1980 e causa di degradanti fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione.
 
Uno spreco di risorse quantificabile intorno a 6 miliardi di € nei 5 anni, visto che la formazione di ognuno di loro costa 250.000 €, quanto una Ferrari 488 GTB. Andranno nella stragrande maggioranza a lavorare all’estero ed è facile presumere che Francia, Germania e Gran Bretagna li accoglieranno a braccia aperte. Si tratta di finanziamenti pubblici che, forse, sarebbe meglio destinare alla cura dei pazienti in considerazione della difficoltà che ci attendono nella fase post epidemica per l’enorme accumulo di prestazioni non effettuate a causa dell’impegno degli ospedali nella cura di malati Covid-19.
 
Non mancano e non mancheranno laureati in Medicina e Chirurgia, nei prossimi 10 anni ne formeremo almeno 110.000. Mancano specialisti! E mancano ora e non tra 11 anni quando il fabbisogno sarà più che dimezzato.
 
Carlo Palermo
Segretario Nazionale Anaao Assomed

02 settembre 2021
© Riproduzione riservata

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