Lettere al Direttore
Come contenere l’aggressività di pazienti e parenti
di Franco CosmiGentile Direttore,
questa estate si è assistito nelle cronache ad un’escalation degli episodi di aggressività verso il personale sanitario. Vertici, incontri, decisioni, proposte di legge, sino ad ora si sono rivelati inefficaci per contrastare un fenomeno in costante crescita. È difficile sintetizzare le motivazioni anche perché le circostanze e i contesti sono i più disparati con la prevalenza di ansia, paura, frustrazione, agitazione, nervosismo e rabbia. A questi sentimenti si aggiunge la difficoltà di comunicazione.
Non è un problema solo italiano se è vero, come dice l’OMS, che tra l’8 e il 38% degli operatori sanitari subisce violenza fisica a un certo punto della propria carriera e fino al 62% è stato esposto ad abusi o minacce verbali. Gli strumenti preventivi e repressivi anche pesanti sono necessari, indispensabili e urgenti ma non competono al medico. Se si vuole contenere il fenomeno alla radice gli strumenti culturali sono sempre quelli più efficaci anche se i più difficili e lenti da realizzare.
Il paziente e forse anche il medico non sono abituati all’incertezza ed entrambi non sanno condividere la probabilità con strumenti che non siano solo il proprio intuito. Quello che il medico non spiega bene e il paziente o il parente non comprende o non vuole comprendere è il concetto di probabilità e di casualità. Ci si basa sullo strumento medico-legale del consenso informato dove il medico spiega al paziente cosa si può fare con il paziente che accetta o meno. Nel corso di alcuni decenni dell’ultimo secolo e di quello in corso siamo passati dalla medicina paternalistica con la fiducia reverenziale del malato verso il medico alla preoccupazione medico-legale del medico verso il paziente, al timore ossequioso del medico verso l’amministratore, al rischio di assoggettamento agli algoritmi e quello di diventare semplice consulente di un paziente esigente che diviene sempre più un cliente consumatore nell’ambito di un mercato sanitario gestito dai professionisti dell’economia e dell’organizzazione.
Il futuro ci porta verso la medicina metaclinica dove il malato non viene più studiato e valutato solo a “letto” ma prevalentemente con l’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali con una partecipazione umana meno decisiva. Il consenso informato diventa quindi uno strumento obsoleto che ha bisogno di essere rimpiazzato da altri strumenti. Uno può essere il processo decisionale condiviso (shared decision-making) sia pur in una condizione di elevata asimmetria conoscitiva e di partecipazione emotiva. Il rapido progresso tecnologico, la digitalizzazione, la consapevolezza dei propri diritti, le nuove conoscenze scientifiche sintetizzate nelle linee guida messe a disposizione anche dei pazienti sfociano nella opportunità, possibilità e necessità di condividere le scelte nel campo della salute. Non si può pensare che questo non richieda impegno e crescita culturale sia del paziente che del medico.
“Nessuna decisione su di me senza di me” è il principio di questa visione. Per realizzarla, evitando posizioni puramente declamatorie, bisogna dotarsi di qualche strumento quali il metodo scientifico, l’alfabetizzazione statistica, la valutazione dell’incertezza e della probabilità, l’accettazione e la gestione del rischio e del livello di sicurezza, sia pur in modo elementare. Il pensiero statistico non produce certezze ma gradi di probabilità che un dato sia vero in una determinata popolazione e di casualità nel singolo individuo che ne fa parte. Per poter scegliere e passare dall’ignoranza all’incertezza e dall’incertezza alla probabilità, il paziente ha bisogno di apprendere in modo elementare le basi della matematica dell’incertezza e del pensiero statistico, presentate dal medico in modo semplice e facilmente comprensibile.
Nel processo decisionale condiviso contrariamente al consenso informato vanno considerate le aspettative, le preferenze, le credenze del paziente e se necessario anche dei parenti. Comunque “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norma di legge, alle deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali (legge 219/2017)”.
Certamente, nel ragionamento probabilistico, il medico non può esimersi dall’essere garante della certezza dei mezzi. Non può però farsi garante degli esiti e di questo il paziente o il parente deve essere consapevole per distinguere l’errore dall’insuccesso. L’errore è colpa del medico quando sbaglia i mezzi per responsabilità solo sua o della struttura di cui fa parte ma l’insuccesso è da attribuire alla incertezza, alla probabilità e alla casualità insita in qualsiasi trattamento sanitario. È questo che l’opinione pubblica non ha ben presente e talvolta nemmeno gli addetti ai lavori. È su questo che i professionisti del contenzioso trovano terreno fertile.
Nel paziente acuto la certezza dei mezzi significa curare il paziente nel contesto di una rete ospedaliera e non del solo ospedale che lo ha in carico. Purtroppo, le inopportune classifiche ospedaliere, le scivolose notizie mediatiche e le dichiarazioni incaute di qualche sedicente luminare spesso discreditano questo o quell’ospedale non inteso in rete e questo favorisce senza giustificarla una aggressività di chi si sente curato male in un ospedale non ritenuto all’altezza dagli stessi addetti ai lavori. La salute in un Servizio Sanitario Nazionale non può essere intesa come in un Mercato. Nel mercato si può scegliere, nel Ssn bisogna essere presi in carico dalla rete ospedaliera o territoriale.
Questa è una differenza sostanziale che ha bisogno della relazione medico-paziente e di un attento, scrupoloso e serio processo decisionale condiviso decisivo per una corretta assistenza e per evitare aspettative non realistiche. Se non si riesce a rendere popolare il concetto di certezza dei mezzi e probabilità dei risultati bisogna prendere atto di una profonda e pericolosa immaturità di una società con elevato analfabetismo funzionale difficile da reprimere, che avrebbe bisogno della militarizzazione di ambulatori e ospedali e di corsi di arti marziali per gli operatori, che, peraltro, risolverebbero poco.
Franco Cosmi
Medico cardiologo
Perugia