18 marzo -
Gentile Direttore,diversamente da quanto dichiarato da alcuni esponenti politici della maggioranza parlamentare, l’articolo della proposta di legge sulle prestazioni sanitarie all’esame dell’aula del Senato che ridefinisce l’articolo 30 della legge 730/1983 (presentato dall’onorevole Maria Cristina Cantù, Lega, già assessore della Regione Lombardia) è effettivamente una sottrazione netta di diritti per quei malati non autosufficienti le cui condizioni cliniche sono così gravi da aver indotto numerosi tribunali a dichiarare che tutti gli interventi loro rivolti dalle strutture curanti devono essere pagati dal Servizio sanitario.
Se la legge verrà approvata, questo non sarà di fatto più possibile (non mi fermo qui sulla retroattività alle cause in corso paventata dal comma 2 dell’articolo, sulla quale nutro seri dubbi di legittimità), perché la copertura totale del Servizio sanitario sarà limitata alle prestazioni intensive ed estensive (in ospedale e lungodegenza/riabilitazione) e non a quelle fornite ai ricoverati delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) con altissima gravità clinica.
Va detto che, sul numero complessivo dei ricoverati in Rsa in Italia, i casi coperti al 100% dalla sanità sono assolutamente residuali e che le cronache hanno spesso omesso casi simili in cui, anche dopo anni di contenziosi legali, la partecipazione del Servizio sanitario al costo delle cure è rimasta al 50%. In tema di residenzialità socio-sanitaria, semmai, il vero allarme riguarda le decine di migliaia di malati che non ricevono nemmeno la quota sanitaria (opzione che non sarebbe nemmeno prevista a livello nazionale dai Lea, ma che nei fatti si verifica con esclusione dalla convenzione a livello regionale) oppure la non corretta determinazione della quota di partecipazione delle Aziende sanitarie ai costi di ricovero, con coperture pubbliche che – ancora una volta, in violazione dei Lea – stanno ben al di sotto del 50% dell’intera retta.
Il principale motivo dell’allarme che i gestori delle strutture socio-sanitarie hanno lanciato alla politica e che è stato raccolto nel contestato articolo Cantù, fa riferimento al modello lombardo, per cui le strutture private sono investite dall’ente pubblico dell’intera responsabilità del servizio (dalla valutazione d’ingresso all’erogazione delle prestazioni), non solo della sua gestione in nome e per conto dell’Azienda sanitaria. In altre Regioni con modelli di accreditamento che non intaccano la responsabilità in ultima istanza dell’ente pubblico, le cause per il 100% intentate contro le strutture si sarebbero “ribaltate” sulle Aziende sanitarie locali, non creando problemi di bilancio ai gestori e non scatenando la corsa a limare al ribasso le coperture del Ssn. Anche i gestori lombardi avrebbero potuto chiedere alla politica uno scatto verso l’alto, motivato dalla sempre crescente gravità clinica dei ricoverati. Hanno invece scelto di appoggiare una norma che limita le tutele del Servizio sanitario.
Tuttavia, è opportuno rilevare che dopo una prima stringata formulazione, l’articolo Cantù ha incluso il riferimento all’articolo 30 dei Lea e alla possibilità – in realtà oggi prevista solo per la disabilità grave, all’articolo 34 degli stessi Lea – di una copertura del 70% dei costi di ricovero da parte del Servizio sanitario nazionale nei casi «di alta complessità assistenziale». Un’opzione che merita attenzione, perché riconoscerebbe la mutata condizione di molti malati afferenti alle Rsa, ma che tuttavia andrebbe sostanziata anche da standard di prestazione più elevati e che, in ogni caso, non garantirebbe affatto una limitazione dei contenziosi e prefigurerebbe un deciso – e assai positivo se risponderà a bisogni degli utenti – aumento delle risorse pubbliche da destinare ai ricoveri.
Il nodo più oscuro dell’articolo, tuttavia, è la presunta «distinzione» delle prestazioni. Nella
formulazione che si vorrebbe approvata («sono a carico del fondo sanitario nazionale esclusivamente gli oneri delle attività di rilievo sanitario anche se connesse con quelle socio-assistenziali») è implicita la divisione schematica tra i diversi tipi di prestazione, che oggi non è presente in giurisprudenza. L’articolo del ddl – che avrebbe meritato un vero dibattito pubblico – non dà indicazioni al riguardo. L’igiene personale del malato, dove si colloca? E quella degli ambienti? L’alimentazione assistita? E quella paraenterale? Interrogativi su prestazioni individuali, da applicarsi a esigenze terapeutiche mutevoli dell’utente, alle quali potrebbero trovarsi nuovamente a dare risposta i tribunali, constatata la confusione della formulazione giuridica.
Andrea CiattagliaDirettore della rivista “Prospettive. I nostri diritti sanitari e sociali”