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QS Edizioni - giovedì 17 aprile 2025

Lettere al Direttore

Perché un ospedale “che chiude” fa più rumore di dieci Case della Comunità che “non aprono”?

di Claudio Maria Maffei
immagine 20 marzo -

Gentile direttore,
Qs ha puntualmente documentato alcuni giorni fa giorni lo stato di (non) avanzamento delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità nella stragrande maggioranza delle Regioni italiane. Nell’articolo si commentavano i risultati del monitoraggio del DM 77 dell’Agenas relativo al II semestre 2024. La efficace sintesi riportata all’inizio dell’articolo è la seguente: ”Le Case di Comunità che vedono la presenza medica e infermieristica - 24 ore al giorno per 7 giorni a settimana nelle CdC Hub e 12 ore al giorno per 6 giorni a settimana per le CdC Spoke - sono appena 46, meno del 3% del totale previsto. E sono 118 quelle con tutti i servizi obbligatori senza la presenza però di medici e infermieri (circa il 7%). Gli Ospedali di comunità con almeno un servizio attivo sono circa 124, su un totale di 568 strutture previste, circa il 22%.” Tanto per dare una idea complessiva della situazione delle 1717 Case della Comunità previste più di 1000 (1068 per la precisione) risultano non attive.

In pratica, nella maggioranza delle Regioni italiane (con le principali eccezioni di Emilia-Romagna, Toscana, Lombardia, Veneto) la gran parte dei cittadini e di chi li rappresenta (Sindaci e politici locali) non sa che cosa sia in concreto una Casa della Comunità, mentre forse qualcuno di più sa cos’è un Ospedale di Comunità non fosse altro che per il fatto che spesso è un piccolo ospedale riconvertito. La stessa ignoranza (in senso letterale) nelle stesse Regioni riguarda la figura dell’infermiere di famiglia e di comunità. In coerenza con questa mancanza di consapevolezza sui “nuovi” servizi territoriali non ci sono movimenti popolari per la difesa della locale Casa della Comunità o del locale Ospedale di Comunità, mentre non si contano le iniziative popolari per il “salvataggio” di questo o quell’ospedale o addirittura per il “salvataggio” di un singolo reparto o di una singola attività, come quella di area chirurgica e quella dei punti nascita.

Questa percezione dei “servizi territoriali“ come servizi rispondenti a bisogni non prioritari, è testimoniata anche dal fatto che quando si parla dei 4,5 milioni di italiani (il 7,6%) che rinunciano alle cure (in assoluto uno dei dati più citati a proposito della crisi del Ssn) quasi mai si ricorda che il dato si riferisce alle sole prestazioni specialistiche di visita e di esame strumentale. Se la percentuale venisse calcolata ad esempio sull’accesso alla assistenza neuropsichiatrica infantile (come quella delle Unità Multidisciplinari dell’Età Evolutiva) o ai Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze o alla presa in carico da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale quelle percentuali salirebbero in modo vertiginoso fino a superare in molte aree il 50%.

Questa sorta di insensibilità di comunità (mi verrebbe da chiamarla “di gregge”), che coinvolge sia i politici che i cittadini, verso i servizi territoriali (che ovviamente non riguarda quei cittadini che i bisogni che ho citato prima li vivono direttamente e drammaticamente) ha delle cause e delle conseguenze che meriterebbero anche dei rimedi, almeno a livello tentativo. Su questo vorrei accennare qualche considerazione nella consapevolezza che si sta parlando di un problema particolarmente complesso. Partiamo dalle conseguenze. La prima importante conseguenza è che il consenso si gioca molto più sul mantenimento e potenziamento dei servizi ospedalieri che non sulla crescita di quelli territoriali. Ciò vale anche per le aree interne dove la spinta politica è piuttosto verso il riconoscimento dello status di area disagiata previsto dal DM 70 (che vuol dire nella migliore delle ipotesi un piccolo ospedale a rischio di inefficienza e di scarsa sicurezza privo di qualunque appeal professionale) che non verso la rivendicazione di una progettualità adeguata alle esigenze di un’area interna, che è quella del DM 77 con tutto il suo repertorio di strutture con i relativi servizi. Quelle che vengono spesso definite “scatole vuote” senza però specificare come riempirle. Le Marche forniscono uno straordinario esempio di questa situazione.

In questa Regione l’Assessore alla Sanità è un ex Sindaco di un piccolo Comune dell’interno di cui ha fatto riaprire l’Ospedale in precedenza riconvertito (e che adesso vuole dotare di Pronto Soccorso contro la norma) e l’Assessore ai Lavori Pubblici è l’ex Sindaco di un altro piccolo Comune dell’interno di cui sta rifacendo con fondi europei l’Ospedale raddoppiandone di fatto i posti letto comprensivi di un reparto per una attività chirurgica di un livello di complessità incompatibile anche questo con la norma. Ma questa ospedalomania non riguarda solo i piccoli ospedali, ma anche gli ospedali “di città” con DEA mantenuti e potenziati anche quando quasi attaccati tra loro, con il consenso di gran parte dei cittadini che poi pagheranno la inefficienza delle strutture cui sono così legati (legittimamente, ma non per questo “intelligentemente”). Sono poi gli stessi territori, delle aree interne e di città, a vedere anzi a non vedere le loro Case della Comunità aperte e funzionanti come da DM 77 riveduto e corretto in base alle realtà locali.

Quali sono le cause (e relativi rimedi) di questa insensibilità di comunità verso le progettualità del DM 77 che dovrebbero riorientare invece le aspettative dei cittadini e le scelte della politica? A mio parere una delle cause è una carenza di public health literacy e quindi di cultura di sanità pubblica, la cui definizione trovo in un articolo di Chiara Lorini e Guglielmo Bonaccorsi pubblicato qualche anno fa su Salute Internazionale: “un livello più elevato di alfabetizzazione sanitaria, nel quale gli individui siano in grado di comprendere non solo le informazioni sulla salute che li riguardano da vicino, ma anche quelle che interessano l’intera comunità.” Trovo che questo “livello più elevato di alfabetizzazione sanitaria” meriti di essere perseguito con metodo ed energia, a partire come target da chi fa politica a tutti i livelli. E’ per questo che alla Schlein appena insediatasi avevo consigliato qui su Qs di riaprire la Scuola delle Frattocchie. Non mi pare, parlo di sanità, che abbia seguito il mio consiglio e questo si vede, purtroppo.

In attesa vigile e speriamo attiva di una crescita di cultura di sanità pubblica, un ruolo decisivo su questi temi tocca al Ministro della Salute, cui ricordo che il problema del pieno funzionamento delle strutture del PNRR non è legato solo al ruolo dei Medici di Medicina Generale, di cui parla spesso (vedi l’articolo di ieri su Qs), ma anche di riorganizzazione delle reti ospedaliere, di cui non parla mai e di cui né le Direzioni del suo Ministero né l’Agenas si stanno occupando. E lo dovrebbero fare adesso, prima delle elezioni regionali tanto per essere chiari.

Claudio Maria Maffei

20 marzo 2025
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