20 marzo -
Gentile Direttore,l’ondata della pandemia Covid si è presentata inaspettatamente negli studi dei medici di medicina generale. Migliaia di casi di una sindrome che pareva simil-influenzale ma che invece era molto più grave, si sono presentati negli studi dei medici di famiglia provocando un’ondata di contagi e decessi fra i medici di famiglia. La zona di Bergamo è stata la più colpita. La novità della patologia, l’assenza di un piano pandemico nazionale aggiornato per cui vi è un procedimento penale in corso, l’assenza di una rete epidemiologica di sorveglianza territoriale hanno colto impreparato il Sistema Sanitario Nazionale.
Le reti di sorveglianza territorialeI medici di famiglia già usavano programmi informatici che sarebbero stati in grado di fornire informazioni sull’ondata pandemica in tempo reale per via telematica, ma nessuno, pur essendoci state delle sperimentazioni sui medici sentinella, si era preoccupato di attivare questa capillare rete di sorveglianza chiedendo ai fornitori di software medici adeguamento dei programmi per permettere segnalazioni automatiche né di mettersi d’accordo con i medici per metterla in pratica.
Eppure i dati informatici dei medici di famiglia possono fornire, se resi automatici, informazioni epidemiologiche di incidenza e prevalenza di qualsiasi patologia infettiva, patologia neoplastica etc che possono definire delle aree a rischio su cui dopo potevano intervenire a ragion veduta i Dipartimenti di prevenzione. Altra opportunità di questa sorveglianza è il controllo in fase 4 degli effetti collaterali dei farmaci che ha sempre stentato a decollare nonostante numerosi provvedimenti anche recenti tentassero di implementarla. Non c’è dubbio che un sistema di controllo simile possa mettere in imbarazzo le case farmaceutiche a cui bastavano le rare segnalazioni pervenute.
I protocolli di sicurezzaScoppiata la pandemia il problema incipiente per i medici di famiglia era come poter assistere i propri pazienti in ambulatorio e a casa senza rischiare un contagio con una patologia sconosciuta e temibile. Le prime richieste alle ASL di avere dei consigli dai responsabili della sicurezza sanitaria in ospedale andarono a vuoto, forse per carenza di personale qualificato. I medici di famiglia furono abbandonati; anche le farmacie dovettero arrangiarsi. A volte di loro spontanea iniziativa formulavano dei protocolli di sicurezza che venivano diffusi localmente a nome dei gruppi di lavoro, le ASL si limitavano a stare alla finestra. Anche i sindacati medici inviarono delle raccomandazioni ai loro iscritti. È innegabile che alcuni chiusero gli ambulatori per visitare solo a distanza via internet. Molti altri con sistemi di distanziamento e organizzazione degli accessi per appuntamento continuarono il loro lavoro. Mascherine e camici usa e getta arrivarono dopo. Causa la difficoltà di sanificazione degli ambienti per un periodo non si poteva accedere nemmeno alla sala d’aspetto.
Per le visite domiciliari dei pazienti col Covid le Aziende Sanitarie organizzarono equipe di Usca in cui un medico e un infermiere che doveva aiutare nella vestizione dei camici si recavano presso i pazienti più gravi e inamovibili. Molti medici per la difficoltà di lavorare in sicurezza razionarono le visite a domicilio.
La diagnosi La diagnosi di Covid-19 era principalmente clinica attraverso i suoi segni caratteristici ma permaneva una fascia di incertezza nei soggetti senza sintomi specifici e negli asintomatici. Tutti i pazienti con sindromi simil-influenzali prima di recarsi in ambulatorio dovevano eseguire un tampone nasale che purtroppo non aveva la sensibilità del 100% ma serviva a ridurre il rischio di contagio. Le linee guida autoprodotte dai medici indicavano come i pazienti potessero venir visitati negli ambulatori. Il monitoraggio della malattia veniva seguito tramite e-mail con il famigliare care-giver con misurazione dell’O2 tramite saturimetri (forniti in una seconda fase) e di altri parametri. Vi sono stati problemi con la trasmissione dei risultati dei tamponi eseguiti in ospedale poiché alcune volte non venivano comunicati al paziente ma al medico di famiglia in quale non era in servizio la notte, i prefestivi e i festivi producendo un ritardo delle diagnosi.
La curaNonostante l’enorme afflusso ai PS la grande maggioranza dei malati di Covid fu curata a casa e solo in caso di aggravamento si inviava negli ambulatori Covid ospedalieri. Le indicazioni terapeutiche ufficiali arrivarono tardi e confuse. All’inizio si usò idrossiclorochina come antinfiammatorio e un antibiotico di copertura che funzionò in molti casi, ma subito si mise in discussione questa terapia per i presunti frequenti effetti collaterali della clorochina; effetti collaterali di un farmaco molto usato nelle malattie auto immunitarie che prevedeva solo controlli oculistici. Gruppi di medici di medicina generale tentarono di costituire dei gruppi di ricerca sulla terapia che furono ignorati.
Dopo la fatidica indicazione di usare tachipirina e vigile attesa sembrava che solo i costosi antivirali somministrati in ospedale avessero una ragione clinica. Nel frattempo l’Istituto Mario Negri portava a conclusione uno studio in cui gli antinfiammatori riducessero fortemente l’accesso al PS. Antinfiammatori dimostrati ora utili anche per il long covid per le loro proprietà antiaggreganti. Questo studio non modificò le raccomandazioni ministeriali.
Le disastrose conclusioniAnnualmente fra medici di famiglia e ASL vengono stipulati i Patti aziendali. In questi Patti e nei Contratti integrativi regionali avrebbero potuto trovare spazio non solo gli obiettivi di risparmio farmacologico e di prestazioni sanitarie ( incentivi per utilizzare farmaci meno costosi o per ridurre le prescrizioni di esami o visite specialistiche) ma anche le rilevazioni dello stato di salute di una popolazione fornendo una mappa epidemiologica dell’incidenza e la prevalenza delle patologie organiche e il loro legame con gli stili di vita, l’ambiente, le strutture sociali e altro. In tal modo sarebbero emersi i determinanti della salute. Senza la cui considerazione è difficile mettere in pratica la prevenzione.
Inoltre l’attività capillare e continua dei medici di famiglia poteva fornire, se raccolta, oltre le utili informazioni sul movimento delle patologie croniche anche e specialmente di quelle acute quali il Covid-19. Non si poteva certo costruire questo in un periodo di confusione e incertezza quale quello della pandemia. Non si poteva far diventare medico di comunità il medico di famiglia su due piedi. Il medico di famiglia era visto come un libero professionista staccato dall’organizzazione sanitaria per cui da solo doveva provvedere ai protocolli di sicurezza per se stesso e per i suoi pazienti, inventarsi strategie assistenziali e terapeutiche e cercare una propria capacità di ricerca scientifica autonoma. Un mondo a parte abbandonato a se stesso.
Non si capisce quindi se il default maggiore lo abbiano avuto questi medici che presidiavano il territorio o i medici dipendenti che dovevano supportarli . Una mancanza di strategia che è costata molto. Sterile quindi è il dibattito dipendenza sì o dipendenza no quando non si affrontino i nodi strategici del problema. Al di là del tipo di rapporto di lavoro con il SSN emerge infatti la necessità per il medico di famiglia di una nuova impostazione culturale non ospedalocentrica, nuovi ruoli, nuovi compiti e nuovi assetti per poter diventare un vero medico di comunità. Le case di comunità se strutturate come dei piccoli ospedali non potranno mai dare la giusta risposta al territorio.
Dott Luciano Mignoli Già mmg tutor e animatore-docente di formazioneBassano del Grappa