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QS Edizioni - giovedì 28 marzo 2024

Lettere al Direttore

Concorrenza in sanità: ma non è ora di finirla con questo ‘mantra’?

di Livio Garattini, Alessandro Nobili
27 luglio - Gentile Direttore,
la concorrenza in sanità è un tormentone che ci accompagna da oramai più di trent’anni, cioè da quando Lady Thatcher ebbe la trovata politicamente geniale di introdurre il concetto di mercato nel NHS inglese, un’idea che nel tempo si è rivelata tanto vincente dal punto vista politico quanto perdente da quello pratico per i sistemi sanitari. In realtà, fin da allora fu necessaria una forte spinta ideologica ostile ai servizi pubblici come il NHS inglese, da cui è derivato anche il nostro SSN, supportata da qualche economista compiacente che non manca mai in qualsiasi circostanza.
 
Ridotta all’osso, come amano spesso ricordare i suoi detrattori, l’economia si riassume nei due concetti base di domanda e offerta. Ma in sanità il problema insormontabile è proprio che in nessuna delle due sussistono le condizioni perché si generino spontaneamente “prezzi concorrenziali”. Infatti, come viene ricordato sui libri di scuola di tutte le facoltà di economia del mondo, la sanità costituisce un classico esempio didattico di “fallimento del mercato”.
 
Dal lato della domanda, i pazienti non possono essere considerati i classici consumatori della teoria economica che vanno in giro per negozi in cerca dei prodotti migliori e a minor costo. Infatti, i cittadini non possono per definizione essere informati a sufficienza per farlo in sanità, nemmeno oggigiorno visto l’eccesso di informazioni spesso contraddittorie diffuse ad arte da tutte le fonti mediatiche moderne. Ecco perché esiste il ruolo del medico generalista, altrimenti detto di famiglia. Tanto per capirci, se i cittadini potessero veramente decidere per conto loro, vorrebbe allora dire che la maggior parte dei medici non chirurghi (a cominciare da quelli delle specialità cliniche) non servirebbero a nulla. Come non bastasse, più grave è la malattia e la percezione della stessa, più il paziente si allontana dallo stereotipo del “consumatore razionale” descritto nei libri di economia, un soggetto che decide gli acquisti in piena autonomia e esclusivamente in funzione dei prezzi più bassi a parità di qualità dei prodotti offerti. Piuttosto, il paziente rischia spesso di diventare suo malgrado un soggetto debole e vulnerabile, oggetto di potenziali “ricatti finanziari”, della serie “Ti posso guarire solo io, ma devi darmi tanti soldi”.
 
Dal lato dell’offerta, la concorrenza richiede per definizione tanti concorrenti che soddisfano contemporaneamente le tre condizioni seguenti: 1) offrono gli stessi prodotti, 2) operano in condizioni simili; 3) non fanno “cartello” con accordi sotterranei per tenere alti i prezzi. Al di là del fatto che nel mondo moderno queste condizioni sine qua non sono sempre più difficilmente riscontrabili in tanti settori merceologici, motivo per cui sono spuntate dappertutto le agenzie antitrust, comunque trattasi di condizioni assai difficilmente riscontrabili in sanità, anche per gli ospedali, i capisaldi dell’assistenza sanitaria agli occhi della gente. Infatti, gli ospedali sono logicamente abbastanza distanti uno dall’altro nelle aree scarsamente popolate, ma anche in quelle urbane è difficile trovare ospedali che offrono tutti gli stessi servizi nella stessa zona, anche nel caso in cui i proprietari siano diversi.
 
E qui sorge il problema degli ospedali privati, che sono quasi tutti stati fondati dopo quelli pubblici, spesso nel nostro Paese inizialmente con case di cura create da medici molto attivi e imprenditoriali, che avevano prima (ma qualche volta anche durante) lavorato nell’ospedale pubblico accanto. In questi casi non mancano gli studi in letteratura che dimostrano come in tutte le nazioni questa convivenza ha generato distorsioni di tutti i tipi nei comportamenti concreti, alla faccia delle condizioni simili di partenza necessarie per la concorrenza. Si trovano infatti sempre e ovunque casi di ospedali privati che si concentrano sui trattamenti più redditizi e/o su quelli meno costosi per aumentare i propri guadagni, come logico che sia nel caso di enti a fini di lucro. Non si vede proprio perché un ente privato che deve fare profitti debba comportarsi contro natura e non è un caso che i servizi di Pronto Soccorso, i più costosi per definizione, perché devono sempre e comunque essere aperti anche in assenza di pazienti, sono tuttora erogati nella maggioranza dei casi dagli ospedali pubblici in tutta Europa. E ciò accade non per una scelta vocazionale degli ospedali pubblici, ma più banalmente perché questi ultimi sono tenuti a erogare tutti i servizi considerati essenziali per la popolazione.
 
Alla luce di tutti questi limiti, è legittimo dubitare dell’esercizio di fissare “prezzi giusti” che magicamente incrociano domanda e offerta in sanità, ivi incluse le tariffe DRG ospedaliere. Infatti, come la storia ci dimostra, queste tariffe di origine americana, aggiornate frequentemente o meno che siano, rappresentano in tutti i Paesi dell’Europa Occidentale un esercizio necessariamente arbitrario, che genera distorsioni finanziare di tutti i tipi. D’altronde, chi si occupa di sanità sa benissimo che determinare dei costi standard per delle prestazioni di un certo livello possa assai difficilmente tener conto della diversa qualità e composizione delle prestazioni erogate in pratica. Tanto per capirci meglio, è molto più ragionevole fissare un prezzo unico generalizzato per appaltare la raccolta dei rifiuti o il taglio dell’erba piuttosto che per un servizio per la salute, visto che per i primi la qualità dei risultati è molto più facile da misurare rispetto a quella dei secondi (in ultima analisi i benefici di salute arrecati ai pazienti). Come logica conseguenza, anche la “fissazione e manutenzione” di queste tariffe è molto più costosa in sanità, richiedendo un numero esorbitante di azioni causate dalla vastità delle tipologie e dalla necessità di continui e sistematici controlli e aggiustamenti. Non deve quindi affatto stupire che gli Stati Uniti spendano molti più soldi delle altre nazioni sviluppate per l’amministrazione della sanità. D’altronde, a prescindere dai numerosi casi di eccellenza delle singole strutture, è noto a tutti che il sistema sanitario americano non è certamente il miglior esempio da seguire alla luce della sua spesa stellare, e non a caso è diventato un argomento di discussione centrale a ogni elezione presidenziale anche prima della pandemia attuale.
 
Concludendo, riteniamo sia proprio giunta l’ora di finirla con il “mantra” che la concorrenza, garantendo la libertà di scelta, aumenta l’efficienza e migliora la qualità dei servizi sanitari pubblici. Ciò non significa negare che esistano situazioni sempre più opprimenti di burocrazia amministrativa e condizionamenti politici di tutti i tipi e a tutti i livelli nella gestione dei servizi sanitari pubblici. Purtroppo, anche la storia del nostro SSN è piena di esempi di annose riconversioni ospedaliere dai risultati alla lunga indecenti, spesso indotti da forzature sindacali e resistenze politiche.
 
Più realisticamente, il nostro messaggio è che, al posto di sprecare continuamente risorse umane e finanziarie per stimolare concorrenza artificiale e fissare prezzi sbagliati, in pieno contrasto con i principi dell’economia e a questo punto anche col buon senso, dovremmo concentrare i nostri sforzi sulla vera grande sfida del futuro, cioè quella di limitare le ‘cattive influenze’ sui servizi sanitari pubblici e gestirne in modo più efficiente l’erogazione nell’ambito del SSN puntando sull’etica professionale degli operatori. Piuttosto che prezzi e concorrenza, pianificazione, budget, organizzazione e controllo delle prestazioni sono le “parole chiave” da importare dall’economia aziendale per amministrare oculatamente i costi dei servizi sanitari pubblici, ispirandosi a una filosofia di integrazione e collaborazione fra servizi per migliorarne la qualità complessiva.
 
Quanto al settore privato sanitario, esiste di fatto e nessuno di noi si sogna di eliminarlo. Peraltro, siccome da che mondo è mondo il privato è fatto più per i ricchi che per i poveri in qualsiasi settore sia presente anche il pubblico (vedi la scuola), ci chiediamo perché mai i servizi sanitari privati non possano coesistere parallelamente (ma separatamente) rispetto a quelli pubblici. Peraltro, con un chiaro confine in ambedue i sensi direzionali, ponendo quindi fine anche a fenomeni aberranti dal punto di vista istituzionale come l’attività intramoenia negli ospedali pubblici, per cui questi ultimi investono soldi pubblici in una propria attività privata. Ma magari di questo ne riparliamo più diffusamente nella prossima puntata...
 
 
 
Livio Garattini
Alessandro Nobili
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS
27 luglio 2021
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