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QS Edizioni - venerdì 19 aprile 2024

Scienza e Farmaci

L’uso di eparina in bridging potrebbe peggiorare la prognosi dopo un ictus cardioembolico

di Valeria Caso
immagine 16 luglio - E’ quanto emerge da un recente studio pubblicato su Stroke (21 giugno 2019). Lo studio osservazionale, coordinato dalla Stroke Unit di Perugia, ha coinvolto 29 centri (europei e asiatici), e ha confrontato i dati di 1810 pazienti affetti da ictus cerebrale ischemico e fibrillazione atriale
L’uso di eparina a basso peso molecolare a dosaggio anticoagulante (100 U/Kg 2 volte al giorno) come terapia ponte (bridging) prima di iniziare l’anticoagulazione orale nei pazienti colpiti da ictus ischemico cerebrale dovrebbe essere evitato.
 
E’ quanto emerge da un recente studio pubblicato su Stroke (21 giugno 2019). Lo studio osservazionale, coordinato dalla Stroke Unit di Perugia, ha coinvolto 29 centri (europei e asiatici), e ha confrontato i dati di 1810 pazienti affetti da ictus cerebrale ischemico e fibrillazione atriale che, dopo la fase acuta, hanno iniziato o ripreso la terapia anticoagulante orale con warfarin (32% dei pazienti) o con uno dei nuovi anticoagulanti orali (dabigatran, rivaroxaban, o apixaban nel 68% dei pazienti).
 
Del totale dei pazienti, 371 (20%) erano stati trattati con eparina a basso peso molecolare prima di iniziare l’anticoagulazione orale; il confronto statistico dei due gruppi ha evidenziato che l’11,3% dei pazienti trattati con bridging raggiungevano un endpoint combinato a 90 giorni di recidiva di ictus, TIA, embolismo sistemico, sanguinamento sintomatico e sanguinamento extracranico maggiore, una percentuale quasi doppia rispetto ai pazienti trattati direttamente con anticoagulanti orali (5,1%; p<0,0001).
 
L’analisi multivariata ha confermato che la terapia bridging è associata ad un rischio maggiore di raggiungere l’outcome combinato (odds ratio 2,2), di recidiva ischemica (odds ratio 2,2) e di un evento emorragico (odds ratio 2,4). Nell’analisi statistica tramite propensity score su 323 pazienti per ogni gruppo, la terapia bridging era associata ad un rischio 3,08 volte maggiore di outcome combinato, 4,50 volte maggiore di un nuovo evento ischemico e 2,71 volte di rischio emorragico.
Inoltre, lo studio ha evidenziato un rischio di eventi ischemici minore nei pazienti trattati con anticoagulanti di nuova generazione (2,9%) rispetto a quelli trattati con dicumarolici (6,8%), a fronte di un uguale rischio emorragico nei due gruppi.
 
“Le attuali linee guida” hanno dichiarato gli autori dello studio “sconsigliano l’uso dell’eparina a dosaggio anticoagulante nella fase acuta dell’ictus ischemico. Tuttavia il cosiddetto bridging, ossia l’abitudine di far precedere la terapia anticoagulante orale da un periodo di eparina, è ancora largamente diffusa nella pratica clinica. Questo potrebbe essere attribuibile all’idea che l’eparina sia un farmaco con pochi rischi e che possa prevenire efficacemente il rischio di recidiva precoce di cardioembolismo. Il nostro studio ha dimostrato, al contrario, che l’uso routinario di eparina in questi pazienti non è giustificato, e che l’aderenza alle linee guida assicura il trattamento migliore”.
 
Valeria Caso
Stroke Unit, Perugia
16 luglio 2019
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