La prevalenza del diabete di tipo 2 negli adolescenti e nei giovani sotto i 40 anni aumenta di anno in anno notevolmente. Negli Usa le stime parlano di un aumento annuale del 2,3% di diabete di tipo 2 negli under 30, dal 2010 ad oggi e si prevede che il numero di giovani con diabete di tipo 2 sia destinato a quadruplicare entro il 2050.
“Mancano dati italiani ufficiali – riflette il professo Francesco Purrello, presidente della Società Italiana di Diabetolgoia - ma estrapolando il dato americano al nostro Paese, è possibile stimare che negli ultimi 10 anni la popolazione dei giovani con diabete di tipo 2 (una forma tipica dei loro padri o addirittura dei loro nonni) è raddoppiata, arrivando a interessare circa 150.000 soggetti.
A predisporre i ragazzi al ‘diabete dei nonni’ sono i ‘soliti noti’: obesità, storia familiare e stile di vita sedentario. Al congresso dell’EASD (
European Association for the Study of Diabetes, in corso a Barcellona da 16 al 20 settembre) un’intera sessione è dedicata a questo problema emergente.
“I dati scientifici finora prodotti – afferma il professor Purrello - dimostrano che in questa fascia di età il diabete è più aggressivo. L'insorgenza di questa condizione in giovane età si associa inoltre ad un aumentato rischio di complicanze croniche, sia macro che micro-vascolari, legate ad un periodo maggiore di esposizione agli elevati livelli di glicemia.
Il diabete di tipo 2 a esordio giovanile ha inoltre un fenotipo patologico più aggressivo, che porta allo sviluppo prematuro di complicanze, con effetti negativi sulla qualità della vita e effetti sfavorevoli sugli esiti a lungo termine”.
Il diabete di tipo 2 nei giovani è associato a grave resistenza all'insulina, e ad un rapido deterioramento della funzionalità delle cellule beta pancreatiche che è da tre a quattro volte più veloce rispetto a quanto osservato nell’adulto; anche i tassi di fallimento terapeutico sono significativamente più alti nei giovani che negli adulti.
Le opzioni terapeutiche per questa condizione sono fortemente ridotte, e gli studi disponibili ancora pochi. Oltre alle modifiche dello stile di vita, di importanza fondamentale, la metformina rimane la terapia di prima linea per gli adolescenti con diabete di tipo 2; ma la maggior parte di questi ragazzi progredisce rapidamente verso il fallimento terapeutico e approda dunque alla terapia insulinica.
Anche uno studio presentato al 55° congresso dell’EASD (Professor Sanjoy Ketan Paul, Università di Melbourne), conferma l’aumento di casi di diabete di tipo 2 a comparsa precoce, dall’inizio di questo secolo. Analizzando l’enorme database delle cure primarie inglesi, sono stati individuate 370.854 persone alle quali è stato diagnosticato il diabete di tipo 2 a partire dall’inizio di questo secolo. L’età media dei soggetti con nuova diagnosi di diabete da inizio secolo è 53 anni, ma l’11% appartiene alla fascia 18-40 anni e il 16% a quella 41-50. La percentuale dei giovani (fascia d’età 18-40) con diabete di tipo 2, nei 17 anni di osservazione dello studio è passata dal 9,5 al 12,5%. In altre parole, in Gran Bretagna oggi un nuovo caso di diabete di tipo 2 su 8 compare nella fascia d’età 18-40 anni (all’inizio del secolo i ‘tipo 2’ in questa fascia d’età erano 1 su 10).
Gli autori hanno estratto i dati relativi a misure antropometriche, cliniche e di laboratorio e alle comorbilità al momento della diagnosi di diabete di tipo 2; sono andati quindi a valutare nell’arco di un follow up di 7 anni, la comparsa di eventi cardiovascolari (CVD) e di mortalità per tutte le cause. I ‘tipo 2’ più giovani presentano un indice di massa corporea (BMI) significativamente più elevato degli altri (in media 35 Kg/m2) e il 71% di loro è obeso, presentano delle glicemie più elevate (l’emoglobina glicata media è 8,6%) e più elevati livelli di LDL (il 71% ≥ 100 mg/dL) rispetto ai diabetici più anziani. Nel gruppo dei giovani inoltre uno su tre è risultato iperteso, il 2% presenta CVD e il 4% malattia renale cronica. Ben uno su 4 è risultato d aumentato rischio cardiovascolare.
Per proteggere questi giovani dalle complicanze dalla mortalità cardiovascolare a lungo termine è dunque necessario adottare strategie di intervento più aggressive.
“L'onere della prevenzione – conclude il professor Purrello - non ricade solo sui medici, ma inizia dalla famiglia, dalla scuola, dai responsabili delle politiche sanitarie, e coinvolge varie componenti della società, inclusa l’industria alimentare”.