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QS Edizioni - venerdì 29 marzo 2024

Studi e Analisi

L’inefficienza dell’Amministrazione non può pesare sui singoli sanitari

di Fernanda Fraioli
immagine 27 marzo - Una recente sentenza chiarisce alcuni profili in materia di responsabilità sanitaria quando si tratta di rivalsa per l’avvenuto pagamento dei danni a terzi da parte dell’Azienda sanitaria per condotta asseritamente dolosa o colposa dei propri dipendenti. Il casus belli è da individuare nel maggior danno di € 1.176.000,00 versato in sede transattiva dalla Assicurazione ai genitori di un neonato a titolo di risarcimento del danno biologico dal medesimo patito a causa della asserita malpractice sanitaria in occasione del parto

Una recentissima sentenza in materia di risarcimento del danno indiretto determinatosi a causa dell’erogazione da parte della ASL del rimborso alla Compagnia di assicurazione delle somme rientranti nella franchigia, ci consente di ribadire alcuni principi in materia di responsabilità sanitaria quando si tratta di rivalsa per l’avvenuto pagamento dei danni a terzi da parte dell’Azienda sanitaria per condotta asseritamente dolosa o colposa dei propri dipendenti.

Il casus belli è da individuare nel maggior danno di € 1.176.000,00 versato in sede transattiva dalla Assicurazione ai genitori di un neonato a titolo di risarcimento del danno biologico dal medesimo patito a causa della asserita malpractice sanitaria in occasione del parto.

Secondo la Procura, il danno erariale era riconducibile all’imperizia del medico di turno e dell’ostetrica, ai quali, veniva contestata la mancata diagnosi di una grave sofferenza fetale per non aver tenuto nel debito conto i tracciati cardiotocografici eseguiti sulla partoriente dai quali, secondo il CTU nominato dal giudice civile, si sarebbero potuti evidenziare dapprima "picchi sia di accelerazione sia di decelerazione" e poi "alterazioni del battito cardiaco fetale".

Secondo questo CTU, la tempestiva diagnosi di sofferenza fetale avrebbe evitato l'insorgere di una sofferenza ipossi-ischemica attraverso l'estrazione tempestiva del feto da un ambiente pericoloso per il suo benessere.

In più, veniva contestata la mancata effettuazione del parto cesareo in via di urgenza, il quale avrebbe evitato l’utilizzo della ventosa e i danni cerebrali irreversibili al feto.

La sentenza nel merito ha escluso la responsabilità dei soggetti chiamati a rispondere, in considerazione delle inefficienze organizzative presenti nella struttura e, così facendo, ha anche ribadito taluni concetti fondamentali.

1. Hanno, ad es., rilevato i giudici come nel caso in esame, alcuna importanza assuma la circostanza che l’Amministrazione abbia deciso di transigere il danno senza il coinvolgimento dei sanitari ritenuti dalla Procura responsabili del contestato pregiudizio.

Un’antinomia, in effetti, se si considera che, ai sensi dell’art.9, co. 3 della legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Gelli-Bianco) “La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l'impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio”.

E, nel caso in oggetto, effettivamente i sanitari chiamati a rispondere non erano stati resi edotti dalla struttura sanitaria della scelta effettuata in totale autonomia di attivare la compagnia di assicurazioni per risarcire i genitori del piccolo, senza coinvolgerli in alcun procedimento o nelle trattative destinate alla stipula dell’accordo transattivo.

A rigore, tanto sarebbe stata una chiara violazione del disposto di cui all’art. 13, della legge Gelli-Bianco, il quale, impone alle strutture sanitarie e sociosanitarie e alle imprese di assicurazione di comunicare agli esercenti la professione sanitaria l'instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato o l'avvio di trattative stragiudiziali con questi, con invito a prendervi parte.

Articolo 13 che, dopo le modifiche apportate dall'art. 11, co. 1, lett. d) della legge n. 3/18, disciplina il tutto con una tempistica e modalità ben determinate – entro quarantacinque giorni, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento – con cui si deve rendere noto l'avvio dei contatti.

Con la conseguente sanzione – in caso di omissione, tardività o incompletezza di dette comunicazioni – dell'inammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa di cui al precedente art. 9.Nel caso in oggetto, per quanto invocato dalla difesa dei sanitari citati in giudizio, il giudice contabile ha ritenuto che la disciplina contenuta in tale norma non trovasse applicazione perché l’azione restitutoria azionata nei confronti della struttura sanitaria era stata formalizzata in epoca antecedente all’entrata in vigore della novella legislativa.

È stata, infatti, da sempre esclusa dalla giurisprudenza un’efficacia retroattiva di tale norma, statuendo che essa valga soltanto per il futuro, ovvero per fattispecie dannose che hanno determinato l’attivazione degli attori della vicenda successivamente alla sua entrata in vigore.

2. Di non poco momento la decisione nel merito della vicenda che ha portato i giudici contabili a non riconoscere responsabili i sanitari mandandoli, così, assolti dalle imputazioni formulate a loro carico perché le gravi inefficienze e le carenze organizzative della struttura ospedaliera dove essi hanno operato hanno escluso gli estremi dell’errore professionale inescusabile.

La legge di riforma degli anni ‘90 (art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 recante Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), ha inteso contemperare le esigenze dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità dell’azione amministrativa con quelle della tutela delle persone fisiche titolari di poteri, funzioni e incarichi pubblici, generalizzando il criterio che la prova dell’imputazione della colpa grave è a carico della Procura procedente.

Ricordano, a tal proposito, i giudici contabili che anche la Corte costituzionale ebbe a pronunciarsi in merito ritenendo assolutamente legittima questa disposizione in quanto la disciplina sostanziale della responsabilità degli amministratori e dei dipendenti pubblici è rimessa alla discrezionalità del Legislatore rigettando, quindi, la questione perché la generalizzazione dell’esonero da colpa lieve “risponde alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo”.

È stato, cioè, ragionevolmente sancito che inefficienze, disorganizzazione e carenze strutturali dell’Amministrazione non possono risolversi in danno del dipendente pubblico. Ed in questo caso, l’evento lesivo della sfera della paziente e del nato è, stato ricondotto alle gravi lacune nell’organizzazione amministrativa, come anche riconosciuto dal CTU il quale ha affermato che nella UOC di ostetricia e ginecologia del Policlinico erano presenti due medici per tutti i servizi (pronto soccorso, reparto e sala parto/sala operatoria, senza reperibilità e senza anestesista di guardia) a fronte delle 6 previste dalla legge.

I due medici presenti hanno dovuto gestire, nella notte n. 7 pazienti in pronto soccorso, n. 8 pazienti in sala parto e n. 40 pazienti in reparto. Durante il parto in contestazione il medico ha assistito, oltre alle due signore con parto naturale nello stesso arco temporale, anche ben 11 accessi di pronto soccorso di pazienti in stato di gravidanza, oltre alle altre 40 pazienti presenti in reparto.

A fronte, quindi, di una tale ingestibile situazione fattuale, mai il giudice contabile avrebbe potuto non considerare la capacità delle inefficienze organizzative di incidere in modo determinante sulle responsabilità dei singoli operatori sanitari, essendo evidente che l’organizzazione non dipendeva da costoro quanto piuttosto dagli enti preposti alle attività di direzione e gestione.

Lo stesso CTU ha spiegato che “ciascuno dei medici presenti era contemporaneamente impegnato in più attività assistenziali e la scelta di optare per un parto naturale anziché per un taglio cesareo è parsa quella più facilmente percorribile in termini pratici. Per cui la eventuale difformità tra le linee guida e la condotta tenuta deve essere calata nel caso concreto: difatti le carenze/inefficienze organizzative derivanti da decisioni degli enti preposti alle attività di gestione e di direzione possono incidere in modo determinante sulla responsabilità dei singoli operatori”.

Le inefficienze e le carenze organizzative evidenziate dal CTU hanno rappresentato circostanze oggettive, assolutamente evidenziati anche dagli atti di causa e perfino non smentite dal Requirente, tanto da comportare il rigetto dell’azione risarcitoria da questi attivata che ha portato, per ciò solo, a ritenere come non caratterizzato da colpa grave il comportamento contestato ai sanitari. Illuminante a tali fini quanto affermato dal Collegio Medico Legale, incaricato dal giudice di rilasciare un parere che ha evidenziato che “benché le linee guida nel caso in essere avrebbero indirizzato verso la scelta di un taglio cesareo anziché di un parto per via naturale, esse vanno però contestualizzate al caso concreto dove le carenze di personale rispetto a quello previsto dalle stesse linee guida del Ministero della salute nel D.M. Sanità del 24 aprile 2000 recepite dalla Regione Lazio don il decreto n. 90/2010 hanno indotto l’operatore ad optare per la scelta concretamente ed immediatamente percorribile. Si ritiene pertanto che la responsabilità ricada principalmente nel mancato rispetto dei requisiti organizzativi da parte degli enti preposti all’attività di direzione e gestione. […] L’incidenza negativa sul verificarsi del pregiudizio subito dal neonato è dipesa principalmente da carenze nei requisiti organizzativi previsti nell’ambito dei requisiti minimi autorizzativi necessari per l’esercizio delle attività sanitarie: le inefficienze organizzative, infatti, incidono in modo determinante sulle responsabilità dei singoli operatori sanitari chiamati ad operare sul campo, che hanno comunque agito in condizioni di disagio in cui le carenze organiche non hanno verosimilmente consentito una decisione terapeutica differente ed un intervento migliore di quello posto in essere”.

3. Da ultimo, ai sanitari chiamati in giudizio ed assolti in virtù delle inefficienze della struttura nella quale operavano che ha del tutto offuscato qualunque ipotesi di riconducibilità a loro carico del risarcimento del danno erariale per colpa grave, è stato riconosciuto anche il diritto ad essere liquidati nelle somme spese per diritti ed onorari, in una parola delle spese legali sostenute per la difesa in giudizio.

È, infatti, principio generale sancito dall’art. 31, co. 1 e 2, del Codice di Giustizia Contabile ai sensi dei quali “1. Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. 2.Con la sentenza che esclude definitivamente la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza del danno, ovvero, della violazione di obblighi di servizio, del nesso di causalità, del dolo o della colpa grave, il giudice non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida, a carico dell'amministrazione di appartenenza, l'ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa”.

Il proscioglimento ai sensi di quanto previsto dall’art. 1, della legge n. 20 del 1994 necessità, però, dell’esclusione a carico del sanitario dell’elemento del dolo o della colpa grave in relazione ai fatti oggetto del giudizio.

Quindi, in caso di proscioglimento definitivo – che accerti, come nel caso in esame, la mancanza di dolo o colpa grave – il giudice contabile, esclusa ogni compensazione delle spese di giudizio, liquida l’ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa del sanitario prosciolto che vanno addebitate alla parte soccombente che non può considerarsi assolutamente il Requirente, atteso che la sua funzione di intervento, non già in rappresentanza dell’Amministrazione, bensì nell’adempimento di un suo dovere impostogli dalla legge.

Il giudice contabile, allora, procede alla liquidazione delle spese legali, ma sempre fermo restando il parere di congruità che l’Avvocatura dello Stato deve esprimere sulla richiesta di rimborso avanzata all’amministrazione di appartenenza.

Le spese legali sostenute dalla parte convenuta e poi prosciolta, per l’attività difensiva svolta dai difensori nei giudizi di responsabilità avanti la Corte dei conti, non sono liquidabili dal giudice sulla base della nota spese, ma dipendono da un giudizio di congruità ed adeguatezza ai fini della loro concreta determinazione.

Ha sostenuto la giurisprudenza che nel conseguente rapporto tra amministrazione e prosciolto ai fini del rimborso, ferma restando la liquidazione giudiziale, il parere dell’Avvocatura erariale si concreta in un semplice controllo di rispondenza della richiesta di rimborso alla liquidazione del Giudice, e di congruità di eventuali spese legali aggiuntive connesse all’attuazione della pronuncia.

Anche per la Cassazione la sentenza di proscioglimento nel merito costituisce il presupposto di un credito attribuito dalla legge e che il giudice contabile è chiamato a quantificare, salva la definitiva determinazione del suo ammontare da compiersi, su parere dell’Avvocatura dello Stato, con provvedimento dell’amministrazione di appartenenza.

Conclusivamente, quindi, compete al solo giudice contabile disporre in tema di liquidazione delle spese in favore del dipendente assolto nel merito innanzi alla Corte dei conti.

Pertanto, l’amministrazione sanitaria deve liquidare solo il quantum determinato dal giudice contabile senza in alcun modo dare seguito a rimborsi ulteriori, risultanti dalle parcelle dell’avvocato dei dipendenti assolti.

Vale a dire che tutto ciò che risulta essere stato erogato ai dipendenti assolti oltre all’importo liquidato in sentenza, in quanto esborso non giustificato, costituirà una posta di danno erariale di cui chi l’ha erogata ne risponderà quale somma illegittimamente erogata con grave colpa.

Con ciò a dire che, se di fronte alla presentazione all'amministrazione di una parcella difforme rispetto a quanto stabilito in sentenza, il dipendente non può ottenere l'integrale rimborso della stessa, restando a suo carico la parte di spese che, eventualmente, il suo difensore abbia a pretendere.

Ne deriva, altresì, che l’amministrazione di appartenenza dell’assolto dovrà eseguire la sentenza e liquidare tali spese così come sono state liquidate dalla Corte, senza poter entrare nel merito e senza rimborsare anche eventuali altre spese fatturate dal legale di parte.

Fernanda Fraioli
Consigliere della Corte dei conti

27 marzo 2023
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