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QS Edizioni - giovedì 28 marzo 2024

Studi e Analisi

Polizze infortuni e Covid. Nulla va dato per scontato

di Maurizio Hazan e Pasquale Picone
immagine 10 settembre - Dire che il Covid deve essere sempre e comunque indennizzato dalle polizze infortuni è una affermazione imprudente, che finisce per annichilire il sacro ruolo dell’autonomia privata. Piaccia o non piaccia, gli indicatori utili a qualificare tecnicamente il contratto privato di assicurazione contro gli infortuni conducono a conclusioni opposte a quelle sin qui sostenute da chi vorrebbe che il Covid rientrasse nel suo ordinario paradigma di operatività. Certo le imprese assicuratrici dovranno prendere posizione sull'argomento
Tiene ancora banco il dibattito relativo all’impatto del Covid-19 sulle polizze private infortuni. E’ di questi giorni l’intervento, su questa stessa testata, del Dott. Roberto Carlo Rossi, il quale ha perentoriamente sostenuto che “il principio normativo consolidato equipara la causa virulenta alla causa violenta”. Continua il Presidente Omceo ritenendo che “ora tocca tuttavia alla Compagnie assicurative sciogliere le riserve, anche se l’attesa è ormai eccessivamente lunga e sono troppi i casi di personale sanitario, che ha sofferto per il Covid-19, e attende i risarcimenti”.
 
Può ben comprendersi la spinta, anche e soprattutto emotiva, di chi reclama a viva voce il giusto ristoro per gli operatori della sanità che hanno perso la vita, o comunque sono stati contagiati “sul campo”, mentre si dibattevano per salvare vite ed arginare gli effetti devastanti della pandemia. E tale rivendicazione è tanto più sentita per quei medici e quegli infermieri che, pur impegnati in prima linea, operano come liberi professionisti, e non possono, perciò, beneficiare della tutela INAIL.

Rimane il fatto che, al di là delle suggestioni e delle emozioni, il tema della sacrosanta tutela di chi abbia contratto il COVID sul lavoro non può essere risolto forzando strumenti assicurativi che non sono stati concepiti a quello scopo né confondendo i piani della protezione lavoristica di fonte legislativa (per di più emergenziale) con quello dell’autonomia contrattuale in campo assicurativo.

 Se è vero, infatti, che l’art. 42, comma 2, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, pone a carico dell’INAIL la tutela dei lavoratori colpiti dall’infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro e definisce espressamente il Covid come infortunio, è altrettanto vero che ciò non vale a cambiare le (diverse) regole del gioco proprie della contrattualistica privata assicurativa in tema di polizze della salute. Polizze che, normalmente, ben distinguono la malattia dall’infortunio e che, in aderenza a quanto ci fa dire il buon senso “comune”, trattano le infezioni come malattie e considerano invece gli infortuni quegli eventi lesivi della salute che si connotano, quanto alle modalità di accadimento, per violenza, fortuità ed esternalità (si pensi alle fratture ossee, tanto per fare un esempio di scuola).

Ora, al di là delle dispute e delle dissertazioni mediche o medico legali, l’interpretazione di un contratto è questione di carattere giuridico. E nessun accordo contrattuale può essere piegato a finalità eccentriche rispetto alla sua causa. Tantomeno forzando la portata di una disposizione (il citato art. 42) che, nata in un contesto del tutto diverso, era mossa da uno scopo di politica sociale: quello volto, da un lato, a rispondere ad esigenze di maggior protezione del lavoratore, stressando il concetto di infortunio sino ad estenderlo ai casi di contagio da Covid19 ed a presumerne l’origine professionale; dall’altro, a tutelare maggiormente le imprese, prevedendo che tali eventi gravino in prima e ultima istanza su INAIL, chiarendo che gli effetti degli eventi in esame non entrano a far parte del bilancio infortunistico dell’azienda in termini di oscillazione in malus del tasso applicato, esattamente come se si trattasse di infortuni in itinere, rispetto ai quali il datore di lavoro non ha quasi mai responsabilità specifiche.

Come poi indicato dalla stessa INAIL in alcune sue circolari, la decisione di estendere il concetto di infortunio anche alle ipotesi di contagio da Coronavirus prescinde, proprio per la finalità che si prefigge la norma, dall’esatta individuazione del momento in cui il virus è stato contratto, garantendo una più celere protezione al lavoratore e sgravandolo, nella sostanza, dall’onere di provare che la contrazione della patologia sia avvenuta in ambito lavorativo.
Tutto ciò non avviene, ovviamente, nel contesto delle polizze private infortuni, neppure quando le stesse abbiano per oggetto infortuni occorsi sul luogo di lavoro.

Si tratta comunque di mondi – quello dell’INAIL e dell’assicurazione privata - contigui ma molto diversi. Al riguardo, va ricordata la celebre sentenza con cui la Cassazione (SS.UU. n. 5119 del 2002) definisce l’assicurazione privata contro gli infortuni come un contratto socialmente tipico, la cui disciplina non conosce specifica fonte normativa ma si è progressivamente consolidata nella prassi. E, dunque, per comprenderne l’estensione “di base” è necessario anzitutto rifarsi alla definizione, tradizionale, che si rinviene in quasi tutti i capitolati di polizza. Nei quali, come detto, quasi invariabilmente si legge che sono coperti “gli eventi dovuti a causa fortuita, violenta ed esterna che provocano lesioni corporali oggettivamente constatabili e che abbiano come conseguenza la morte, una invalidità permanente oppure una inabilità temporanea”.
 
Senza alcuna pretesa di invadere il campo della medicina legale, l’idea primitiva ed elementare correlata a questa definizione evoca una matrice sostanzialmente traumatica ed improvvisa, a quasi immediata consumazione temporale. In quanto tale piuttosto distante dal diverso concetto di malattia, descritta come ogni alterazione patologica dello stato di salute che abbia una etiopatogenesi endogena a propagazione graduale.
Del resto la stessa nozione di malattia infettiva riporta - diremmo ontologicamente, testualmente e lessicalmente - il fenomeno all’interno della categoria delle malattie e non degli infortuni.

Sotto il profilo semantico poi soccorrono le indicazioni dell’ISS, secondo il quale “Una malattia infettiva è una patologia causata da agenti microbici che entrano in contatto con un individuo, si riproducono e causano un’alterazione funzionale: la malattia è quindi il risultato della complessa interazione tra il sistema immunitario e l'organismo estraneo. …. Il tempo che intercorre tra il contatto tra un microbo e il corpo umano fino all’apparire dei sintomi viene chiamato “periodo di incubazione”, che è diverso a seconda della malattia infettiva e dipende dai rapporti che si instaurano tra il germe e l’ospite.
 
Durante il periodo di incubazione si parla anche di “infezione”, ovvero della presenza di agenti microbici che si riproducono all’interno dell’organismo. L’infezione può decorrere senza sintomi e in quel caso si parla di “infezione asintomatica”. Se invece compaiono dei sintomi, si instaura una “malattia””. Sia pur con la prudenza con cui il giurista deve trattare questioni di rilievo anche medico legale, ci pare che proprio questi passaggi consentano di sottolineare il fatto che non è tanto e non è solo il momento del contatto (da COVID nel caso di specie) a generare le conseguenze dannose quanto il risultato della complessa interazione tra il sistema immunitario e l'organismo estraneo. Interazione che può dar luogo ad una alterazione funzionale in conseguenza della maggiore o minor riproduzione degli agenti infettivi e della capacità individuale di risposta/difesa durante il periodo di incubazione.
 
Periodo che può esitare senza sintomi o dar luogo ad una vera e propria malattia infettiva, quale risultante di una interazione (tra fattori endogeni ed esogeni) non sempre idonea ad evitare un processo patologico. Il che esclude dunque che ci si trovi al cospetto di una causa davvero “esterna” e violenta nel senso letterale e semantico del termine, giacché il virus genera o meno malattia in funzione ed a seconda della (maggiore o minor) risposta immunitaria individuale.

Uscendo poi dalle definizioni generali e tornando al cuore del problema, dobbiamo ribadire che la polizza infortuni è un contratto dal contenuto liberamente plasmabile, a seconda della capacità di copertura dell’assicuratore e dell’esigenza assicurativa del cliente. Esistono dunque polizze che escludono gli infortuni professionali ed altre che, al contrario, si limitano a quelli. Polizze che non coprono gli infortuni se avvenuti durante lo svolgimento di attività sportive ed altre, invece, che li ricomprendono espressamente. Il perimetro delle coperture reperibili sul mercato è dunque in concreto assai variabile.
 
Dire che il Covid deve essere sempre e comunque indennizzato dalle polizze infortuni è dunque, a tacer d’altro, una affermazione imprudente, che finisce per annichilire il sacro ruolo dell’autonomia privata. Ma anche in assenza di precise indicazioni contrattuali, è bene tener conto di quanto la più autorevole dottrina giuridica ha sin qui sostenuto ”L’art. 42 d.l. 18/20 non può riverberare effetti sulle polizze private contro gli infortuni in virtù del principio dei irretroattività della legge, ovvio essendo che una legge sopravvenuta, in mancanze di norme intertemporali (che nel caso di specie non sussistono) non potrebbe disciplinare i contratti anteriormente stipulati… Pretendere che le polizze infortuni debbano coprire il rischio da contagio Covid, in assenza di qualsiasi patto contrattuale, sol perché esiste l’art. 42 d.l. 18/20 è affermazione che getta nel cestino della carta straccia secoli di attività giuridica” (Rossetti, L’assicurazione e l’emergenza Covid, Giappichelli edizioni on line, 29 aprile 2020).

Insomma, piaccia o non piaccia, gli indicatori utili a qualificare tecnicamente il contratto privato di assicurazione contro gli infortuni conducono a conclusioni opposte a quelle sin qui sostenute da chi vorrebbe che il Covid rientrasse nel suo ordinario paradigma di operatività. Ciò al netto di eventuali specifiche criticità di scrittura di alcuni contratti, che potrebbero indurre dubbi interpretativi che potrebbero esser risolti in senso più favorevole all’assicurato. Si tratta, però, di questioni da affrontare caso per caso, e solo al ricorrere di effettive debolezze testuali della polizza.

Certo, ragionando prospetticamente, le imprese assicuratrici, anche in considerazione delle moderne regole di costruzione e distribuzione dei prodotti assicurativi, dovranno preferibilmente prendere posizione sull’argomento e rivedere i prodotti di futura commercializzazione; vuoi per ribadire l’esclusione del Covid dalle polizze infortuni; vuoi per ricondurre apertis verbis le ipotesi di copertura del Coronavirus (o delle infezioni epidemiche o pandemiche) all’interno di contenitori contrattuali più coerenti (polizze malattia); vuoi per decidere di non voler in alcun modo farsi carico di fenomeni catastrofali pandemici, in quanto non agevolmente mutualizzabili a condizioni di premio sostenibile.

Maurizio Hazan
Studio legale Taurini & Hazan
 
Pasquale Picone 
Legal Counsel Studio legale Taurini & Hazan
10 settembre 2020
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