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Costi standard. Intervista a Marroni (Toscana): “Ecco perché devono cambiare”

di C.F.

Parla l’assessore alla Salute toscano, artefice della proposta di modifica dei costi standard approvata dalla Conferenza dei presidenti. “Il sistema attuale non funziona perché alla fine non cambia nulla rispetto ad oggi e in più perché mancano criteri forti per premiare e incentivare la qualità”

13 NOV - Benchmark sì, benchmark no. Le Regioni sembrano aver trovato una terza via e il principale artefice è l’assessore alla Salute della Toscana Luigi Marroni che ha curato la stesura del documento di modifica dei costi standard sul quale la Conferenza delle regioni, come lui stesso ci ha confermato, ha trovato l’accordo.
 
Basta con le singole regioni benchmark, difficili da scegliere e soprattutto a forte rischio di non essere effettivamente rappresentative, e si prendano invece a riferimento tutte le regioni con i conti a posto e che abbiano superato il tavolo di monitoraggio dei Lea. Ora la proposta è all’esame del Governo e potrebbe diventare la base per emendare il dlgs 68 del 2011 sui costi standard.
 
Assessore Marroni, la vostra proposta di modifica del dlg 68 del 2011 sui costi standard ha convinto tutti.
Sì. La proposta che abbiamo elaborato su delega della Conferenza è stata accolta dai presidenti regionali ed ora diventerà la base per costruire una specifica proposta emendativa all’attuale assetto dei costi standard. E speriamo di farlo già con questa legge di stabilità o comunque all’inizio del prossimo anno.
 
E per il 2013?
Per quest’anno abbiamo convenuto di applicare i criteri stabiliti dal Ministero della Salute nel luglio scorso e quindi di provvedere al riparto del fondo seguendo la logica delle cinque regioni benchmark dalle quali selezionare le tre di riferimento. Ma il sistema, a regime, va cambiato perché mostra troppi punti deboli.
 
Quali?
Prima di tutto con l’attuale proposta non cambia granché. Perché in teoria si dovrebbe assegnare ad ogni regione il pro capite delle regioni benchmark ma così facendo restano “fuori” dal riparto 10/15 miliardi, che saranno comunque ripartiti, lo prevede la norma in vigore, in base alla popolazione. Quindi l’effetto finale è quasi nullo. Poi c’è una debolezza di fondo: gli attuali criteri con cui si scelgono le regioni di riferimento rischiano, nonostante gli indicatori di performance previsti, di sostanziarsi nell’identificazione con quelle che spendono meno, quasi a prescindere dalla qualità dei servizi erogati. Per questo proponiamo di prendere in considerazione tutte le regioni con i conti a posto e che superano l’esame del tavolo sul monitoraggio dei Lea, quindi con un minimo qualitativo garantito.
 
Perfetto. Ma resta un punto da chiarire. Anche in questa proposta per costo standard si intende comunque un indicatore complessivo di spesa e non, come il termine lascerebbe intendere, il costo effettivo delle singole prestazioni o dei singoli dispositivi.
E’ vero. Ma qui c’è un equivoco di fondo che ci portiamo dietro fin dalle prime bozze della legge sui costi standard sanitari. I costi standard di cui parliamo sono infatti intesi come indicatori, diversi dagli attuali basati solo sulla spesa procapite pesata, per attuare il riparto del fondo sanitario nazionale. Con la nostra proposta si individuano nuovi e più selettivi criteri di riferimento, dove la qualità delle cure e dell’assistenza ha un peso determinante, ma certamente non si tratta del costo standard inteso come costo di una siringa o di un singolo ricovero.
 
Non varrebbe allora la pena di cambiargli nome, anche per evitare quest’equivoco, che tra l’altro ha creato molte aspettative nell’opinione pubblica?
Probabilmente sì, sarebbe meglio cambiargli nome. Ma detto questo dobbiamo anche dire che immaginare di ripartire le risorse nazionali alle Regioni sulla base di quanto costa ogni singola prestazione o presidio è una cosa senza senso e non gestibile. Semmai, e su questo dobbiamo lavorare, vanno incrementate le verifiche e i confronti tra le regioni per capire come e quanto si spende per particolari servizi e percorsi assistenziali e di questi dati farne tesoro per migliorare le nostre performance. Ma una standardizzazione secca di tutto in sanità, oltre che molto difficile, può portare anche a risultati paradossali. Prendiamo ad esempio ciò che risultò da un’analisi dell’ex commissario alla spending review Bondi che rapportava una serie di costi ospedalieri al numero di ricoveri. Ne venne fuori che le regioni più “virtuose” erano quelle che ricoveravano di più, andando così assolutamente controcorrente a tutto quello che ci diciamo da anni sulla necessità di ridurre i ricoveri e favorire la medicina territoriale.
 
Ma in fondo è d’accordo con quanto ci diceva l’economista di Harvard Robert Kaplan sul fatto che in sanità parlare di costi standard e costi fissi è un non sense?
Senz’altro. Stabilire griglie rigide di costi indipendentemente da ciò che si dà e da come si fa porterebbe a risultati disastrosi. Diverso è darsi un obiettivo complessivo di qualità e costo totale e su questo sviluppare dei nuovi programmi di organizzazione e gestione dei nostri servizi. E in questa operazione dobbiamo anche tener conto che in Italia non partiamo tutti dagli stessi livelli.  Le Regioni più indietro devono essere incentivate a migliorare e non possono essere penalizzate in partenza.
 
C.F.

13 novembre 2013
© Riproduzione riservata

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