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Il Mezzogiorno e la sua sanità vilipesa. Ecco perché i Piani di rientro non funzionano più

di Ettore Jorio

Metà degli italiani rimedia appena i Lea, spesso confidando nella generosità dei propri medici. Ci sono regioni ove, anche in presenza di sospette malattie gravissime, è difficilissimo conquistare un posto letto piuttosto che una mammografia o una risonanza magnetica. Queste regioni sono quelle che compongono il Mezzogiorno allargato a centro-sud

13 MAG - Gli articoli pubblicati, che mettono in rilevo il dramma vissuto dall’Ospedale Annunziata di Cosenza, del quale ho avuto modo di interessarmi più volte anche su questo Quotidiano, non potevano non stimolarmi.
 
La ministra Beatrice Lorenzin sta battendosi perché alla sanità “non venga tolto un capello”. Perché vada esente dalla spending review ordinaria affidata a Carlo Cottarelli. Da una parte, riconosce che occorre intervenire con i tagli, chirurgici e non lineari. Dall’altra, sostiene che ciò che si taglia debba rimanere, comunque, all’interno del sistema. Ha ragione! Ciò in quanto lo stato dei fatti dimostra, in tutta la sua drammaticità, quanto sia limitato preoccuparsi, troppo generalmente, della sostenibilità del SSN nella sua attuale performance prestazionale. Alla stessa necessita un sensibile rilancio.
 
C’è la metà degli italiani, quelli che rappresentano la parte più povera di economia produttiva e di occasioni di lavoro, che rimedia appena i Lea, spesso confidando nella generosità dei propri medici. Ci sono regioni ove, anche in presenza di sospette malattie gravissime, è difficilissimo conquistare un posto letto piuttosto che una mammografia o una risonanza magnetica. Queste regioni sono quelle che compongono il Mezzogiorno allargato a centro-sud. Un territorio vilipeso da una sanità che non funziona, che ciononostante finanzia, attraverso la mobilità passiva, le casse di quelle Regioni che hanno investito nel c.d. “turismo sanitario”. Quello stratagemma che produce, per esempio, introiti straordinari alla Lombardia, di circa 600 milioni di euro all’anno. Un po’ meno di un quinto di quanto costa tutta la sanità in Calabria, che ne paga 260 per i calabresi che intraprendono i viaggi della speranza.
 
Il problema è quello di capire che la sanità così com’è non va bene ovunque. Il fenomeno della migrazione salutare assume un valore culturale che, in quanto tale, si recupera in anni di credibilità, formata soprattutto sulla rinascita del servizio territoriale, che invece latita. Altrimenti, non sarà possibile arginarla. Non solo perché ricostruire il senso di fiducia, di chi non l’ha mai nutrita, è cosa rara e difficile bensì perché l’essere in Europa vuole dire accettare le regole di potere liberamente rintracciare in tutta l’UE l’assistenza che necessita. La recente disciplina per l’assistenza extra-frontaliera va in tal senso e, quindi, incentiva l’acuirsi del fenomeno.
 
A tutto questo viene ad aggiungersi un altro problema interno: quello di avere metà Paese in piano di rientro e un quarto delle Regioni commissariate. Una gestione straordinaria che non va, dal momento che, ivi, peggiorano i servizi, si desertificano i siti assistenziali, rimane al palo l’assistenza territoriale e gli unici risparmi derivano dal blocco del turnover che, di qui  a poco, renderà vacanti gli unici punti che funzionano (i pronto soccorso e le corsie dei soliti ospedali), per abbandono degli attori che li animano con la loro professionalità e il loro senso di abnegazione.
 
La protesta dei medici dell’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza, che è uno dei migliori presidi del Mezzogiorno, è sintomatico di tutto questo. Il loro scendere in piazza costituisce l’esempio per il Paese: i medici scioperano per essere messi in condizione di fare ivi il loro dovere e per rendere esigibile ai cittadini il diritto alla salute, non già per rivendicare soldi!
 
Si diceva del problema culturale. Riformare il sistema è oramai un dovere ineludibile, così come necessita tagliare tutto ciò che non serve e ottimizzare ciò che rimane. La storia della sanità dell’ultimo trentennio ha dimostrato la perdita del concetto idealizzato di tutela della salute, considerata nella sua universalità, globalità e uniformità.
 
Ha prodotto 21 repubbliche “indipendenti”, ciascuna delle quali ha fatto ciò che sapeva fare. Molte, di quelle in piano di rientro, hanno gestito le risorse destinate alla salute così come hanno fatto con tutto il resto, fondi comunitari compresi. Praticamente non hanno fatto nulla, peggiorando spesso le cose da un anno all’altro. Lo scopo è stato (quasi ovunque) di mantenere la sanità sotto l’egida della politica, interessata com’è a gestire il potere, l’occupazione e il denaro che una siffatta attività determina.
 
Tutto questo ha prodotto persino linguaggi e traduzioni improprie degli strumenti finalizzati al miglioramento. Primi fra tutti quelli utilizzati per risolvere i problemi economico-finanziari emersi: i default, che sistematicamente affliggono la gestione della salute.
 
Insomma, nominalmente è successo nella sanità ciò che sta accadendo con il sistema dei Comuni, in profonda crisi di liquidità. Si è pensato che fosse sufficiente tirare fuori uno strumento di gestione straordinaria affidato, peraltro, agli autori del disastro. Da qui, il piano di riequilibrio pluriennale dei Comuni ha assunto la denominazione di predissesto. Quello di riorganizzazione e riqualificazione dei sistemi sanitari regionali è diventato il piano di rientro.
 
Su tutto, la dimostrazione del naturale pessimismo della vulgata ma anche di chi ha il dovere istituzionale di intervenire. Così facendo, nella sanità, ciò che si impone per riorganizzare il SSN diventa, come detto, piano di rientro, piuttosto che di riqualificazione dell’intervento. Quasi come si volesse versare l’acconto sul necrologio dei servizi socio-sanitari.
 
La soluzione alla crisi risiede negli investimenti produttivi. Quelli perlopiù impediti. Solo attraverso le disponibilità finanziarie fresche si può raggiungere nel medio termine quella soglia di rinnovato “buon andamento” e di efficienza che consentirebbe di ammortizzare al meglio gli investimenti che generano servizi e prestazioni essenziali di assistenza. Quegli investimenti che assicurano ciò che la Costituzione impone.
 
Supporre di insistere sul ripianamento esclusivamente fondato sulle economie, soprattutto quelle realizzate sul blocco del turnover, significherebbe perdere definitivamente la partita!
 
Prof. avv. Ettore Jorio
Università della Calabria 

13 maggio 2014
© Riproduzione riservata

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