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I 40 anni della legge 194. Cgil Lombardia: “Applicarla pienamente per garantire alle donne l’accesso all’aborto”


Così in una nota la Cgil Lomabrdia fa il punto sulla legge 194 a 40 anni dalla sua entrata in vigore. Diverse le criticità ancora da superare. "Nella nostra regione il rapporto abitanti/consultori è ben lontano sia da quanto previsto dalla legge sia dalla media nazionale". Quanto all'aborto farmacologico: "Il ricorso alla RU 486 è minimo perché si chiede il ricovero ospedaliero per tre giorni". Infine, sull'obiezione di coscienza: "Impensabile mettere in contrapposizione due diritti individuali".

21 MAG - "La legge 194 il 22 maggio compie quarant’anni e ne sono passati trentasette da quando le elettrici e gli elettori italiani ne hanno confermato la validità e l’hanno riconquistata votando 'No' al referendum abrogativo voluto dalla parte più oscurantista del paese. Tracciando un bilancio, non c’è dubbio che questa legge, ancora attualissima nei contenuti, sia stata uno strumento fondamentale per garantire la salute e la vita di tante donne, insieme al loro diritto a decidere senza imposizioni del proprio corpo, della propria sessualità, a scegliere liberamente se essere madri e quando. Ma oggi la 194 trova serie difficoltà di applicazione, in particolare a causa delle dimensioni assunte dal fenomeno dell’obiezione di coscienza - di medici, anestesisti, ostetriche e persino OSS - e dalle resistenze alla diffusione della interruzione di gravidanza farmacologica". Così in una nota la Cgil Lomabrdia fa il punto sulla legge 194 a 40 anni dalla sua entrata in vigore.
 
"Anche in Lombardia, come nel resto d’Italia, il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza è fortemente ostacolato. È diminuito in modo drastico il numero dei consultori pubblici (venti in meno rispetto al 2010, con forti carenze di personale), mentre è aumentato quello dei consultori privati accreditati - un terzo del totale nel 2017 - che non erogano le prestazioni relative all’interruzione volontaria di gravidanza realizzando nei fatti una obiezione di struttura del tutto priva di fondamento giuridico ma coperta dalla volontà politica.
 
Nella nostra regione il rapporto abitanti/consultori è ben lontano sia da quanto previsto dalla legge sia dalla media nazionale: il dato medio è stimabile in una struttura ogni 37.000 abitanti e, soprattutto, è fortemente condizionato dal minor numero di strutture pubbliche. Questo ha effetti diretti soprattutto sulle fasce di popolazione con minori risorse (minorenni, donne straniere, donne in condizioni economiche precarie), penalizzate quando si tratta di reperire le informazioni per accedere ai servizi o di spostarsi nel territorio per ottenere una prestazione. Quanto alla educazione sessuale nelle scuole, per sviluppare in ragazze e ragazzi un atteggiamento responsabile e consapevole rispetto alla sessualità, i consultori pubblici da anni hanno drasticamente ridotto le attività, mentre quelli privati le esercitano in un regime di scarsa trasparenza sulle competenze possedute", prosegue la nota.
 
"Se a ciò si aggiunge che il ricorso all’aborto farmacologico con la RU 486 è minimo perché si chiede il ricovero ospedaliero per tre giorni, è evidente come per le donne interrompere volontariamente una gravidanza divenga un vero percorso ad ostacoli, come se si trattasse di una espiazione. La Cgil Lombardia chiede da tempo alla Regione un’inversione di rotta, il potenziamento dei consultori pubblici nel numero e nel personale e la piena garanzia dei diritti e della libertà femminile. Ma oltre a queste ci sono altre risposte possibili.
 
L’obiezione di coscienza, infatti, ormai investe inopinatamente anche la contraccezione, basti pensare all’obiezione dei farmacisti alla vendita della pillola del giorno dopo. Per noi è impensabile mettere in contrapposizione due diritti individuali, quello della donna a scegliere liberamente della sua gravidanza e quello dei medici ad obiettare, perché la scelta di interrompere una gravidanza è un atto di libertà di scontata responsabilità personale, che riguarda una donna e lei sola. Un atto cui nulla si può obiettare".
 
"Allora chiediamo di ripensare la questione dell’obiezione di coscienza, non intervenendo sulla norma ma nelle pratiche concrete, anche contrattuali e di gestione aziendale degli enti ospedalieri, prima di tutto garantendo in ogni struttura pubblica e privata accreditata la dotazione organica necessaria a garantire l’applicazione della legge e l’esercizio individuale del diritto da parte delle donne. Si tratta cioè di costruire l’organizzazione necessaria a garantire il diritto, altrimenti il diritto resta sulla carta.

Alcune strutture sindacali della Cgil del settore pubblico hanno preso in considerazione nella contrattazione una strada possibile come, per esempio, all’ospedale San Camillo di Roma. In questa struttura si è scelto di sperimentare un bando mirato ad assunzioni destinate al settore Day Hospital e Day Surgery per l’applicazione della Legge 194. Del resto la legge, in merito all’obiezione di coscienza del personale sanitario, dice che questa è strettamente personale ma che 'gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste'", spiega il sindacato.
 
"Nonostante le tante polemiche, prevedere assunzioni mirate va dunque nel senso della piena applicazione della legge e può contribuire a rimuovere le cause strutturali che determinano il diffondersi dell’obiezione di coscienza, che non sempre è dettata unicamente da opzioni morali. Spesso, infatti, la decisione di diventare obiettrice/ore di coscienza avviene per ragioni legate allo sviluppo della carriera. Sono sempre meno i medici disposti e, alla lunga, purtroppo anche capaci di fare questo tipo di interventi e, di fronte al rischio di concentrare tutta la propria attività professionale su questo fronte, è più comodo fare in modo che a farlo sia qualcun altro. Senza considerare che in strutture sanitarie dove è sempre più diffusa e aggressiva la presenza di movimenti e gruppi pro life, essere non obiettrici/tori oggi richiede una buona dose di coraggio, sia rispetto ai superiori che ai colleghi e all’ambiente di lavoro. Un coraggio e una disponibilità all’assunzione di una responsabilità sociale spesso penalizzante che, invece, andrebbero riconosciuti e valorizzati. E questo spetta alle istituzioni".
 
"L’altra scelta fondamentale per riportare nei giusti binari la piena applicazione della legge 194 è quella praticata in altri paesi europei, sostenuta in Italia da molte associazioni, dai medici non obiettori e da gruppi femministi in una petizione rivolta lo scorso anno alla Ministra Lorenzin, nella quale si proponeva l’IVG farmacologica in regime ambulatoriale. In realtà la RU486 è erogata in Italia dal 10 dicembre 2009, ma il suo uso è molto limitato. Nell’appello si legge infatti: “Francia 57%, Inghilterra 60%, Finlandia 98%, Svezia 90%, Portogallo 65%; Italia 15%! Queste sono le percentuali di utilizzo della metodica farmacologica per l’interruzione volontaria di gravidanza nei principali paesi europei. L’Italia è ultima, non per l’ostilità delle donne, ma perché l’accesso a tale metodica è fortemente limitato - in molte realtà possiamo dire ostacolato- dalle modalità di ricovero consigliate/imposte dal Ministero della Salute. Tutto ciò in spregio del dettato della legge 194, che, all’art.15, raccomanda 'la promozione delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza'. Poiché la procedura farmacologica è sicura […..] ed è considerata dalle più importanti linee guida internazionali il metodo di scelta per le IVG nelle prime 7 settimane di gravidanza, andrebbe sostenuta e promossa in alternativa alla procedura chirurgica", continua la nota.
 
"La modalità del ricovero per la IVG farmacologica è una scelta politica, non una necessità medica: Fare una scelta diversa si può e, per la salute e il benessere delle donne, si deve. Nella stragrande maggioranza dei paesi i farmaci per la IVG farmacologica vengono dispensati in regime ambulatoriale, in strutture analoghe ai nostri consultori, o addirittura dai medici di medicina generale che abbiano ricevuto una formazione specifica. In Italia, invece, per tale procedura è previsto il regime di ricovero ordinario, ossia una ospedalizzazione di almeno 3 giorni, dal momento della assunzione della RU486 fino alla avvenuta espulsione. Solo 3 regioni (Emilia Romagna, Toscana e Lazio) hanno adottato il regime di day hospital. In realtà l’autodimissione prima dei tre giorni non solo è consentita ma è anche molto frequente, con il risultato di trasformare queste prestazioni in ricoveri impropri e quindi non rimborsati da Regione alle strutture."

“Non esiste alcun dato - conclude la petizione - che giustifichi un ricovero ospedaliero per la IVG farmacologica. L’esperienza ormai più che decennale degli altri Paesi dovrebbe dunque spingerci a modificare le nostre pratiche […] Ciò comporterebbe un notevole risparmio di risorse, che potrebbero essere meglio indirizzate per il potenziamento della rete dei consultori e per la promozione di un più facile accesso alla contraccezione, unica reale prevenzione del ricorso all’aborto”.
 
"Infine, l’insieme dei temi collegati alla attuazione della legge, dalla educazione alla prevenzione fino alle questioni di carattere etico, è assente dalla formazione curricolare dei professionisti della sanità e dalla loro formazione continua. Questa lacuna basterebbe da sola a indicare la marginalità che il tema della salute delle donne ancora riveste anche per la cultura dei professionisti. Su queste questioni, che possono avere una attuazione pratica senza toccare la legge 194, intendiamo aprire una vertenza con Regione Lombardia per ottenere un confronto serio e garantire il diritto alla salute sessuale e la libertà delle scelte riproduttive delle donne.
 
Infine ricordiamo che la scelta di esser madri deve essere sempre protetta e resa compatibile con le condizioni materiali degli ambienti di lavoro. La lotta per un lavoro sicuro e di qualità per noi è impegno quotidiano a tutela della libertà di scelta delle donne", conclude Cgil Lombardia.

21 maggio 2018
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