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Nuova legislazione europea sui farmaci. Intervista a Guido Rasi: “Ottimi obiettivi, ma la metodologia rende difficile raggiungerli”

di Barbara Di Chiara

Per l'ex direttore esecutivo dell'Ema la proposta di riforma del settore "è stata formulata sulla base di una situazione che non rispecchia la realtà attuale. Vedremo se nei vari passaggi istituzionali sarà modificata. Per ora, nasce con grandi contenuti ideologici animati da buone intenzioni, ma senza essere efficace”.

29 APR -

Una proposta di riforma della legislazione nel settore farmaceutico “che è stata formulata sulla base di una situazione che non rispecchia la realtà attuale. E che ha ottimi obiettivi, ma una metodologia poco chiara e a tratti farraginosa per raggiungerli”. Così Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell’Agenzia europea dei medicinali (Ema), commenta con Quotidiano Sanità il testo presentato mercoledì in Commissione europea, che passerà ora al vaglio di Parlamento e Consiglio Ue.

“Il limite di questa bozza di normativa – spiega Rasi – è proprio questo: essere partiti da presupposti che ormai non esistono più. Pensiamo alla licenza obbligatoria che si prevede le aziende debbano concedere per i medicinali che si dovessero rivelare essenziali in caso di emergenze sanitarie. E facciamo l’esempio di Moderna: quando scoppiò la pandemia, l’azienda assicurò che non avrebbe agito legalmente contro chi avesse riprodotto il suo vaccino contro il Covid-19. Questo perché, di certo, non è semplice o meglio è quasi impossibile per un’altra impresa farmaceutica ‘copiare’ un prodotto che deriva da tecnologie avanzatissime e sofisticate. Se pensiamo a quando il mercato era composto soprattutto di piccole molecole, sicuramente riprodurle velocemente non sarebbe stato un problema e anzi sarebbe stato vantaggioso in caso di necessità. Ma oggi questo mercato è fatto soprattutto di medicinali innovativi, molto costosi, per una platea limitata di pazienti. Un’idea che nasce, quindi, abbastanza obsoleta”.

La riforma del sistema pharma in Europa, “si propone l’obiettivo ammirevole di aumentare l’accesso alle cure negli Stati dove il mercato generalmente non consente sempre l’introduzione in commercio di tutte le innovazioni, ma lo fa con un incentivo che rischia di essere un disincentivo. Toccare la data protection, e ancora di più la market exclusivity, la protezione commerciale sui farmaci, riducendola di 2 anni e abbassandola a 8, rischia di rendere l’Europa ancora meno competitiva di prima e di non risolvere il problema che si propone di affrontare. Peraltro si tratta di una norma di difficile attuazione, che introduce ulteriore burocrazia e soprattutto di difficile controllo: non è chiaro chi dovrebbe vigilare sul fatto che (per ottenere una protezione commerciale più lunga) le aziende lancino su tutti i mercati il loro prodotto. Anche le altre situazioni in cui la protezione ridotta può essere ri-estesa risultano complicate da ottenere”.

Altro punto, la volontà di snellire i tempi di approvazione dei nuovi medicinali arrivando 180 giorni per l’iter europeo: “è un progetto encomiabile – assicura Rasi - ma sarà difficile da ottenere senza prevedere parallelamente un allargamento importante della pianta organica dell’EMA: si continua a seguire l’assunto sbagliato che l’ampliamento dell’Ema sarebbe una spesa pubblica troppo consistente, senza considerare che l’Agenzia si auto-mantiene e, assumendo dimensioni maggiori, potrebbe diventare ancora più efficiente e così generare più risorse”.

Applicare queste norme, secondo l’ex direttore esecutivo dell’Ema, che ha guidato l’Agenzia europea in pieno periodo pandemico, “significa rendere l’Europa meno attrattiva per gli investimenti da parte delle aziende del farmaco, per una condizione di sistematica impossibilità di programmazione: io penso sia giusto chiedere tanto alle società farmaceutiche, ma l’unica cosa che gli va garantita, per far sì che contribuiscano alla crescita economica di un’area, è la prevedibilità e la possibilità di fare piani industriali di ampio respiro”.

Si potrebbe dunque creare un quadro che metterebbe anche l’Italia in una situazione difficile: “Essendo il nostro un Paese ad alto tasso produttivo nel settore, il fatto che l’ambiente normativo sia non accattivante porterà le grandi realtà a investire soprattutto in Asia, in luoghi che facilitano le condizioni di attrattività e non le ostacolano. Sì, per l’Italia è un grosso problema se l’Ue non è più attrattiva, se introduce maggiore burocrazia e complica il quadro normativo rendendolo imprevedibile per chi investe”. Infine l’obiettivo, “lodevole” di voler agire contro il crescente fenomeno dell’antibiotico-resistenza, “attraverso un voucher, non fa altro che andare ad alterare il mercato: si prevede la possibilità, per le aziende che fanno ricerca e arrivano a produrre nuovi antibiotici, di poter prolungare la proprietà intellettuale su un altro proprio farmaco, distorcendo il mercato perché magari si tratta di un prodotto che era ora di liberare alla genericazione. Oppure si può ‘vendere’ questo voucher a un’altra azienda. Un punto anche eticamente discutibile. E’ giusto prevedere incentivi alle società che investono in questo settore che preoccupa tutto il mondo, ma l’unico incentivo che qui potrebbe funzionare è quello di destinare finanziamenti importanti, a fondo perduto. Sono stati ottenuti così velocemente i vaccini contro il Covid perché sono stati subito messi sulla bilancia 15 miliardi di dollari da un consorzio pubblico-privato. Per ottenere nuovi antimicrobici occorre fare la stessa cosa e una volta che sono arrivati in commercio bisogna far sì che questi prodotti siano ulteriormente incentivati e remunerati. Vedremo se nei vari passaggi istituzionali questa riforma sarà modificata, per ora mi sembra che una legge che nasce con grandi contenuti ideologici animati da buone intenzioni, ma senza essere efficace”, conclude Rasi.


Barbara Di Chiara



29 aprile 2023
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