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Alzheimer e Parkinson. Rapamycin: un immunosoppressore ritarda la comparsa dei sintomi


Alla base del funzionamento sulle malattie neurodegenerative di questo medicinale che di solito viene utilizzato per prevenire il rigetto da trapianto ci sarebbe un meccanismo molecolare: mettere una proteina i cui livelli sono troppo bassi con la sua proteina “specchio” ne stimola la produzione.

18 OTT - Di solito si usa per prevenire il rigetto a seguito di un trapianto, ma Rapamycin, un farmaco immunosoppressore autorizzato in Europa più di 10 anni fa, ha oggi dimostrato di avere un altro sorprendente uso: secondo uno studio italiano della Sissa di Trieste, infatti, il medicinale potrebbe ritardare la comparsa di patologie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson. La ricerca è stata pubblicata su Nature.
 
Non si può certo dire che l’annuncio sia stato dato in maniera affrettata: ci sono voluti cinque anni di studio per verificare questa possibilità. Lo studio era partito dall’osservazione che alcuni pazienti malati di Parkinson mostravano un deficit nei livelli della proteina UCHL1. Inizialmente, i ricercatori non sapevano cosa fosse a produrre quest’alterazione e per questo è stato lanciata la sperimentazione che ha portato alla scoperta.
Al contrario di quanto comunemente ipotizzato, non è vero soltanto che un frammento di Dna codifichi una proteina tramite Rna messaggero, ma succede anche il contrario: gli scienziati hanno scoperto che esiste un equilibrio tra le proteine prodotte e le loro proteine “specchio”, e che queste si controllano l’un l’altra. Il Dna per svolgere la sua azione di sintesi delle proteine ha bisogno delle molecole di Rna che fungono da brevi “trascrizioni” dell’informazione genetica, l’insieme delle quali è chiamato “trascrittoma”. Nel trascrittoma umano accanto a circa 25mila porzioni di RNA codificante, attivi cioè al processo di sintesi, si trovano però altrettanti RNA non codificanti. Alcuni di questi Rna sono detti “antisenso” perché si appaiano in maniera appunto speculare a porzioni di Rna codificante, dette “senso” (immaginate l’unione fra un RNA senso e uno antisenso come la chiusura di una cerniera lampo).
 
Se la proteina specchio si trova solo nel nucleo della cellula, non interagisce con la molecola originale, mentre se si trova nel citoplasma lo fa. Nel caso del morbo di Parkinson, la proteina UCHL1 – come già detto – risulta in quantità ridotte. Gli scienziati hanno allora pensato un metodo per estrarre quest’ultima dal nucleo e farla interagire di più con la UCHL1 originale: rapamycin è capace di fare proprio questo. Il farmaco permette alle due proteine speculari di stare contemporaneamente nel citoplasma, e ciò stimola la sintesi di UCHL1, correggendo alcuni dei problemi riscontrati nel Parkinson: perché questo accada è necessario prima che la UCHL1 specchio si accumuli nel nucleo e poi che ne venga estratta e venga messa a contatto con quella originale. “Bisogna specificare che rapamycin non può curare la malattia, ma può ritardare la comparsa dei sintomi, sia per il Parkinson che per l’Alzheimer”, hanno spiegato gli scienziati che hanno condotto gli studi. “Perciò il farmaco può proteggere negli stadi precoci, ma per completare il trattamento deve essere combinato con altre terapie. Per questo prima che venga usato sugli esseri umani ci sarà da aspettare un po’”. Tuttavia, spiegano ancora gli autori, la ricerca è utile anche perché dimostra che lo stesso procedimento usato per questa proteina potrebbe essere usato per stimolare la produzione di altre molecole (vedi video).

18 ottobre 2012
© Riproduzione riservata

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