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Dolore. Lo studio dell’esoma spiega chi è più soggetto a quello cronico


La ricerca arriva dal Beijing Genomics Institute, e mostra come alcune varianti genetiche siano associate ad una minore sensibilità al dolore. Lo studio – svolto in collaborazione con l’industria e pubblicato su PLoS Genetics – apre la strada anche allo sviluppo di opzioni terapeutiche promettenti.

02 GEN - Dopo essere stato inserito tra le dieci personalità scientifiche dell’anno da Nature, oggi Jun Wang,  capo del Beijing Genomics Institute (Bgi), il più grande centro al mondo che si occupa di sequenziamento genomico, può gioire per un risultato più accademico. Il suo istituto è infatti coinvolto insieme al King’s College di Londra e a Pfizer in uno studio sul dolore pubblicato su PLoS Genetics: secondo la ricerca alcuni particolari geni sono collegati al dolore cronico, ma i processi in cui sono coinvolti possono essere usati come target per le terapie di antidolorifiche per i pazienti.
 
Chi è più sensibile al dolore nella vita di tutti i giorni è più portato a sviluppare dolore cronico. A partire da questa consapevolezza, e per identificare i diversi livelli di sensibilità, i ricercatori hanno sottoposto a test sulla soglia del dolore 2500 volontari, usando sui loro arti una sonda capace di riscaldarsi fino a provocare dolore. Gli scienziati chiedevano ai partecipanti di premere un bottone quando il calore cominciava a fare male, cosicché si potesse stabilire quale fosse il livello di sopportazione di ognuno. In seguito è stato analizzato il Dna delle 200 persone più resistenti e delle 200 più sensibili, tramite la recente tecnica di sequenziamento dell’esoma. I risultati hanno dimostrato diversi pattern di varianti genetiche in ogni gruppo: le persone più sensibili al dolore presentavano minore variazione nel Dna di quelli che erano insensibili ad esso. “Tuttavia, saranno necessari ulteriori studi per comprendere completamente in che modo la genetica sia collegata al dolore negli esseri umani”, ha commentato Serena Scollen, genetista alla Pfizer e co-autrice dello studio.
“Sempre più dati confermano l’idea che esistono alterazioni rare, di solito non considerate negli studi di associazione genome-wide – quelli che analizzano i geni di diversi individui per cercare le variazioni associate a tratti particolari, come le malattie n.d.R. – che giocano però un ruolo centrale nelle malattie complesse. La nuova generazione di tecniche per il sequenziamento del genoma renderanno però possibile esplorare anche queste varianti più rare, e porteranno sicuramente a nuove scoperte nella ricerca biomedica”, ha poi aggiunto Xin Jin, project manager di Bgi.
 
In particolare però questo studio dimostrerebbe anche come la collaborazione tra accademia e industria possa essere proficua. “E in questo senso speriamo di andare avanti nella collaborazione, in modo da comprendere meglio l’influenza del Dna in come l’organismo gestisce il dolore, anche per trovare dei modi per trattarlo a livello clinico”, ha commentato Ruth McKernan, dell’unità di ricerca di Cambridge della Pfizer stessa.
“Il dolore cronico è un grande peso sia a livello personale che socio-economico”, ha infatti spiegato, concludendo, Frances Williams del King’s College, prima autrice dello studio. “Almeno una persona su cinque ne fa esperienza nella vita, e al momento i trattamenti hanno o efficacia limitata o troppi effetti collaterali per molte di queste persone. Per questo è così importante che si riescano a trovare nuove opzioni terapeutiche”.

02 gennaio 2013
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