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European AIDS Conference/4. Una persona su tre non sa di essere malata. Ancora carenti le campagne di prevenzione

di Marzia Caposio

La percezione della malattia, la gestione del paziente in cura e le prospettive per il paziente stesso sono cambiate, ma nonostante l'Italia sia in prima linea per efficacia di cure contro l’Hiv e le terapie siano sempre più efficaci non si deve abbassare il livello di guardia. Per questo serve più prevenzione

23 OTT - “In Italia sono 150 mila le persone infettate dal virus dell’Hiv, ma in terapia ve ne sono 94 mila. Questo vuol dire che 1 persona su 3 non sa di essere malata”.
A parlare è Carlo Federico Perno, Professore Ordinario di Virologia dell’Università Tor Vergata di Roma. La situazione italiana è come se fosse una medaglia a due facce: una molto rassicurante, l’altra decisamente meno. L’efficacia delle terapie è la faccia “buona”, la prevenzione quella “cattiva”. Le dinamiche sono sottili e occorre fare una netta distinzione tra ricerca scientifica e comunicazione. “Dall’Aids non si guarisce, l’Aids si cura”, precisa Perno. E tutto si riassume in questa frase, la chiave di volta è proprio questa. Su questo devono basarsi le campagne di prevenzione che purtroppo al momento “in Italia sono carenti”. Se ci fosse una corretta informazione ed il livello di attenzione non scendesse mai sotto la soglia dei minimi, l'altra faccia della medaglia, quella “buona”, sarebbe ancora più efficace. Ma facciamo un passo indietro.

Un terzo degli italiani non sa di essere infettato e questo per svariati motivi, primo fra tutti la latenza del virus. Dal momento del contagio, possono passare dalle 6 alle 8 settimane prima di sviluppare un’infezione acuta, esattamente come accade per la varicella. Se questa, però, non viene riconosciuta, l’infezione diventa malattia e prima della diagnosi passano dai 5 agli 8 anni. Questo vuol dire che attualmente si fanno diagnosi su pazienti che hanno contratto il virus tra il 2010 e il 2007.
“In Italia si ha una diagnosi media intorno alle 230-250 CD4 – prosegue Perno – si calcola che una persona infettata perda circa 100 CD4 all’anno. Da qui, se al momento della diagnosi il paziente ha circa 230-250 CD4 e al momento dell’infezione ne aveva circa 1.000, perdendone 100 all’anno il paziente scoprirà di essere malato dopo 5-8 anni. Arrivati a 230-250 CD4 il paziente comincia a perdere peso, comincia ad avere herpes ricorrenti e comincia ad avere la candidosi sulla lingua, quindi tutti i sintomi riconducibili alla malattia che spesso però non vengono riconosciuti dal medico di base che purtroppo non ha più la percezione dell’Hiv come virus circolante”.
Quindi questo è il paziente medio, ha spiegato Perno. Poi da una parte abbiamo “le persone che hanno il sospetto di essere positive e si sottopongono al test perché sanno di essere a rischio e dall’altra il paziente che arriva tardi e muore con 8 CD4, 3 CD4, 0 CD4”. Perciò affermare che “la malattia e l’infezione sono risolte è un azzardo” sottolinea l’esperto perché questo approccio va ad inficiare sull’immaginario comune e sulla percezione della malattia che hanno sia il malato che le persone sane.

“Ci sono 4 mila nuove infezioni da Hiv l’anno solo in Italia. Non possiamo quindi definire l’epidemia controllata – aggiunge Perno – così come non possiamo definire la malattia risolta avendo un elevato tasso di diagnosi tardive perché più diagnosi tardive equivalgono a più alti tassi di mortalità nonostante l’assoluta efficacia dei farmaci, perché il virus dell’Hiv rimane per sempre nel corpo”. Per questo è necessaria la prevenzione. Certo, dagli anni ‘80-‘90 ad oggi si sono fatto dei progressi enormi e la più grande conquista è “l’aver reso una malattia mortale, una malattia cronica, controllabile” e questo grazie alla ricerca che ha portato a farmaci estremamente efficaci. Ora, la nuova sfida è quella di produrre farmaci in grado di mantenere sempre la stessa efficacia a distanza di 30-40 anni abbassando i tassi di tossicità. “La terapia è per sempre, il malato dovrà prendere farmaci per tutta la vita e per questo motivo servono medicinali efficaci nel lungo periodo e meno invasivi” prosegue Perno. Ma l’altra faccia della medaglia ci ricorda che “le malattie croniche uccidono ugualmente”. È una questione di prospettive, faccia “buona” e faccia “cattiva”, tutto sta nel fonderle insieme in meglio.

L’età media di diagnosi in Italia sta intorno ai 35 anni “e quindi è aumentata molto rispetto al passato”. Inoltre il paziente vive più a lungo ed è per questo motivo che “da un lato abbiamo bisogno di farmaci che funzionino sempre e bene, di terapie che non siano tossiche neanche tra 20 anni sapendo che non c’è la possibilità di eradicare il virus”.
Per fare un esempio, basta guardare ad alcune malattie esantematiche: “dal morbillo si guarisce, dalla varicella no perché il virus rimane nell’organismo. La differenza sta nel fatto che la varicella dorme e può non dare più segni della sua presenza, l’Hiv continua a scavare come un cucchiaino all’interno del sistema immunitario e va tenuto sotto controllo sempre”. La linea che divide la parola cura e la parola guarigione quindi, è molto sottile, ma va tracciata, sempre. Dall’altro lato invece “è necessario pensare e guardare nell’ottica del lungo periodo perché solo così potrò portare i miei pazienti”, conclude Perno.
Tirando le somme, i risultati raggiunti sono incredibili, ma è necessario non dimenticare mai da dove si è partiti. Le sfide per il futuro, ormai non troppo lontano, sono due: terapie meno tossiche, ugualmente efficaci e durevoli nel tempo e prevenzione. Solo se entrambe le facce della medaglia andranno di pari passo, si potrà pensare di essere davvero in vantaggio sull’Hiv.

 


Marzia Caposio
 

23 ottobre 2015
© Riproduzione riservata

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