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Diventare mamma con il cancro grazie alla Pma. Ma gli oncologi non ne parlano con le pazienti. Intervista al ginecologo Antonio Colicchia 

di Lucia Conti

Domani l’Associazione Italiana Protezione della Fertilità riunirà ginecologi, oncologi, psicologi e giuristi per confrontarsi sulla Procreazione medicalmente assistita. Per il segretario dell’Aipf, la priorità è “sensibilizzare gli oncologi sulla necessità di informare le loro pazienti sulle tecniche di crioconservazione che permettono di avere figli nonostante la malattia”. E l’eterologa? “In Italia è ancora un miraggio”. Il programma dell'evento

19 NOV - “Le donne che sono sopravvissute a un cancro possono avere figli”. Purtroppo, però, sono ancora pochi gli oncologi che affrontano la questione con le loro pazienti. "Una grave carenza assistenziale", secondo Antonio Colicchia,  segretario AIPF, l’Associazione Italiana Protezione della Fertilità, perché "chi lavora nel settore" della fecondazione assistita "sa bene che la prospettiva di non poter mai avere figli è molto dolorosa per le donne", al punto da minarne la salute psicofisica. Per questo "è necessario sensibilizzare gli oncologi, a partire dai ginecologi, sulle opportunità  offerte dalle tecniche di crioconservazione". Servirà anche a questo il convegno che l'Aipf promuoverà domani a Roma, dove ginecologi, oncologi, psicologi e giuristi si riuneranno per confrontarsi sulla Procreazione medicalmente assistita.
 
In questa intervista Colicchia anticipa alcuni dei temi che saranno trattati al convegno, dove si parlerà anche di fecondazione eterologa. Che, a detta del segretario Aipf, "resterà un miraggio finché non si metteranno i centri pubblici nelle condizioni di lavorare in tutte le Regioni, stabilendo norme omogenee a livello nazionale anche in termini di costi e rimborsi".

Prof. Colicchia, uno degli ambiti più importanti di procreazione medicalmente assistita è quello che permette di preservare la possibilità di avere figli anche in caso di gravi malattie. A che punto siamo in Italia su questo fronte?
Siamo ancora indietro, purtroppo. Non esistono dati precisi, ma sappiamo che in Italia ci sono solo due centri che erogano il servizio di crioconservazione di ovociti per pazienti oncologiche, a Bologna e a Milano, e che ancora scarsa è l’informazione che gli oncologi forniscono alle loro pazienti riguardo a questa possibilità. Lo scopo del convegno che promuoveremo il 20 novembre è anche quello di sensibilizzare il mondo dell’oncologia, a partire dai ginecologi, su questo lavoro di informazione che – in base alle linee guida internazionali ed europee – deve essere obbligatoriamente fornita alle pazienti.

Perché gli oncologi non informano le loro pazienti sulla possibilità di crioconservare gli ovociti?
Da parte della comunità medica c’è ancora molto scetticismo su questa materia e sulle sue conseguenze sul percorso di cura. Per questo motivo il primo passo è chiarire che certe tecniche non influiscono in alcun modo sulle possibilità di cura e di sopravvivenza delle pazienti, anzi, a livello psicologico diventano uno stimolo positivo. Ci sono tumori, ad esempio il morbo di Hodgkin, che colpiscono donne molto giovani e per le quali la prospettiva di non poter mai avere figli rappresenta un aspetto molto doloroso. Questo mina la salute psicologica delle pazienti e può influire negativamente anche sul fisico, di conseguenza sulla risposta alle terapie. A tutte queste donne, però, può essere offerta la speranza di avere figli in futuro, ed è assurdo che gli venga negata tale opportunità.
Ci sono, inoltre, donne che sono geneticamente predisposte a certi tumori, come quello alla mammella e alle ovaie. Tale predisposizione è rilevabile attraverso il test BRCA1. Queste donne dovrebbero essere indirizzate ai centri di conservazione di ovociti, perché nonostante la malattia non si sia ancora sviluppata, la probabilità che questo avvenga è molto alta. Oltre ad essere più a rischio, peraltro, queste donne sono ipofertili. Anche in questo caso la mancata informazione sulle opportunità offerte dalle tecniche di crioconservazione rappresenta un grave carenza assistenziale.

Lo scetticismo dei medici è del tutto ingiustificato? Le tecniche sono davvero sicure?
Alcune sì, è ampiamente dimostrato, come nel caso del recupero di ovociti su ciclo stimolato. Questa tecnica può essere effettuata nella finestra di tempo che passa tra il momento della diagnosi e quello della terapia – circa uno/due mesi – e non comporta alcun effetto collaterale sulla donna o sulle terapie a cui dovrà sottoporsi. Si tratta però di una tecnica spesso osteggiata per il timore che l’aumento di estrogeni possa compromettere la salute della paziente in caso di tumore ricettivo agli estrogeni. Anche in questo caso, tuttavia, occorre fare chiarezza: si deve sapere anzitutto che non tutti i tumori sono sensibili agli estrogeni, in secondo luogo esistono tecniche per mantenere gli estrogeni entro dei livelli di sicurezza. La tecnica, dunque, è più che sicura e gli studi dimostrano che le aspettative di guarigione tra le donne che hanno fatto le stimolazioni ormonali e quelle che non le hanno fatte sono identiche. L’unica differenza è che nelle prime è molto più alto il beneficio in termini psicologi e di aspettative di ritorno a una vita normale una volta sconfitta la malattia.
Va sottolineato che  il carcinoma della mammella è il più frequente tra i tumori femminili (Dati ISTAT, 47.000 nuovi casi nel 2013), rappresentando il 29% di tutti i tumori femminili e nel 45% dei casi colpisce donne con età inferiore ai 40 anni. Togliere la possibilità di avere figli a queste pazienti è un atto molto grave.

E per quanto riguarda le altre tecniche?
E’ ancora in fase di sperimentazione il prelievo e la crioconservazione di tessuto ovarico da reimpiantare. Ci auguriamo che in futuro possa rappresentare una nuova prospettiva per chi non può sottoporsi alla stimolazione.

Oncologia e fertilità non sono più parole che si escludono a vicenda, dunque?
No, le donne che sono sopravvissute a un cancro possono avere figli, ma sta ai medici renderlo possibile, fornendo alle pazienti tutte le informazioni necessarie a scegliere la crioconservazione. Da qualche tempo, comunque, la sensibilità a questo importante aspetto della patologia tumorale sta crescendo, tanto che l’Oncofertilità sta diventando una disciplina a se stante, nell’ambito della quale lavora un èquipe formata da oncologi, ginecologi, psicologi e da un esperto della riproduzione, che valutano le pazienti caso per caso e indicano loro le opportunità più adeguate alla loro condizione clinica.

Stiamo parlando di donne, mai di uomini. Come mai?
La conservazione di spermatozoi è una pratica ormai comune, lo stesso non si può dire delle donne. La causa non è tanto nell’impatto fisico delle tecniche sui pazienti, quanto nelle maggiori difficoltà a raccogliere un numero adeguato di ovociti rispetto a quanto avvenga per gli spermatozoi. Per spiegarci, per gli uomini è semplice raccogliere migliaia di spermatozoi, ma una donna, con il ciclo mensile spontaneo, produce solo un ovocita. Per potere garantire una gravidanza ne servono almeno otto, questo significa sottoporre la donna a più cicli di stimolazione. In poche parole, la conservazione degli spermatozoi è un campo, per così dire, risolto, mentre la comunità scientifica è ancora impegnata a trovare le migliori soluzioni possibili per difendere la fertilità della donna.

Sono state approvate dalla Conferenza Stato Regioni le linee guida sulla procreazione assistita che stabiliscono alcuni limiti per l'eterologa. Cosa ne pensa dei paletti messi all’età?
Mi sembra giusto quello di 40 anni e 35 per i donatori e le donatrici, che è peraltro il limite stabilito a livello europeo. Non condivido, invece, il limite di 43 anni nel pubblico per le donne che vogliono accedervi; considerata l’alta aspettativa di vita e i mutamenti sociali, troverei più adatto permettere a una donna di accedere alla Pma eterologa entro i 50 anni di età, così come accade nel resto d’Europa. Paradossale, poi, mi sembra porre dei paletti all’età delle donne che si rivolgono ai centri privati, se non quello dei 50 anni, dal momento che per quelle prestazioni pagano tutto di tasca loro.

L’esistenza di paletti per l’età deriva da ragioni cliniche o etiche?
Per le donne in cerca di gravidanza non si tratta sicuramente di ragioni cliniche, dal momento che le possibilità di successo sono legate all’età della donna al momento dell’estrazione degli ovociti e non dell’impianto degli embrioni. E’ probabile che si tratti, invece, di una scelta di politica ed economia sanitaria allo scopo di privilegiare – almeno nel pubblico – chi ha visto compromessa la sua fertilità a causa di una patologia ed escludere, invece, chi per molto tempo non ha voluto figli e poi ne cerca in età avanzata. Il problema più grave nell’accesso all’eterologa, tuttavia, non mi sembra consista nei limiti fissati all’età, quanto nell’eterogeneità di norme a livello regionale che si traduce in maggiore o minore possibilità dei cittadini di accedere a queste prestazioni. Oggi, in pratica, in diverse Regioni siamo solo all’inizio o agli annunci, mentre solo la Toscana  garantisce realmente l’eterologa nell’ambito del servizio sanitario regionale. Ma anche essa si è trovata recentemente costretta a bloccare l’accesso alle coppie provenienti da alcune Regioni, probabilmente a causa dei mancati rimborsi da parte di queste Regioni delle prestazioni erogate dalla Toscana ai loro cittadini.

Cosa è cambiato dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha dato il via libera all’eterologa in Italia?
In realtà ben poco. L’applicazione della legge a livello pubblico è sporadica e i centri privati la fanno utilizzando, nella quasi totalità dei casi, ovociti provenienti dall’estero, con costi - molto alti - a carico dei pazienti. Nei fatti la sentenza della Corte Costituzionale è rimasta sulla carta. In Italia l’eterologa resterà un miraggio finché non si metteranno i centri pubblici nelle condizioni di lavorare in tutte le Regioni, stabilendo norme omogenee a livello nazionale anche in termini di costi e rimborsi.

L’eterologa dovrebbe essere garantita gratuitamente in tutta Italia?
Credo che l’Italia debba fare di più per sensibilizzare i cittadini sulla tutela della fertilità, considerato che la nascita di bambini non è solo una questione di importanza individuale, ma anche nazionale, in quanto significa portare nel sistema nuove energie. A questo scopo, molti Paesi europei oggi stanno ripensando le proprie politiche educative in fatto di procreazione, a partire dalle campagne informative sul calo della fertilità all’avanzare dell’età, fino a norme e contributi a sostegno della gravidanza. Trovo che queste politiche siano importantissime, ma ritengo che ne debbano far parte a pieno diritto anche le tecniche di conservazione di sperma ed ovociti per i pazienti oncologici. La ricerca di un figlio che non arriva provoca una sofferenza enorme e altera gravemente la salute psico-fisica della coppia. Chi lavora nel settore lo sa bene, ma forse c’è ancora poca consapevolezza di questo nel mondo politico e nella società.

Cosa risponde a quanti affermano che nel Servizio sanitario nazionale ci sono prestazioni più importanti da garantire e in tempi di scarse risorse bisogna scegliere?
Rispondo che i risparmi non si ottengono negando i servizi, ma andando a colpire gli sprechi, e ce ne sono.

A limitare le possibilità di accesso all’eterologa sono solo questioni di ordine economico e normativo?
Gli strumenti e le professionalità ci sono tutte, se è quello che intende.

Cosa ne pensa del limite massimo di 10 nascite per ogni donatore, con eccezione nel caso che una coppia che ha già figli con quel donatore voglia avere un altro figlio?
Dieci nascite per donatore è il giusto limite per evitare il rischio di incontro tra consanguinei. Gli studi utilizzati per scegliere tale numero avrebbero dimostrato che così il rischio di incontrare un consanguineo, nel corso della propria vita di coppia, è nettamente inferiore alla possibilità di incontrare un figlio che uno dei genitori ha avuto al di fuori… del matrimonio, per intenderci.
Quanto alla possibilità di superare le 10 nascite, se a chiederlo è una coppia che ha già avuto figli con quel donatore, è una regola che condivido. Ha lo scopo di mettere a disposizione di soggetti consanguinei le potenziali affinità di materiale biologico derivante dall’avere lo stesso patrimonio genetico. È una questione che in passato ha fatto discutere, perché ci sono state coppie che hanno pensato di fare un figlio proprio allo scopo di curarne un altro. Senza entrare nel dettaglio di tali vicende, e partendo dal presupposto che tale affinità non è mai garantita al 100%, trovo comunque logico e razionale permettere a due fratelli concepiti attraverso l’eterologa di godere di questo vantaggio.

Le coppie che accedono all'eterologa non possono scegliere le caratteristiche somatiche del proprio figlio. E’ un limite che è stato stabilito per evitare un figlio “su misura”?
In alcuni Paesi è consigliata la somiglianza tra alcune caratteristiche somatiche come colore degli occhi e dei capelli, e gruppo sanguigno. In Spagna questo è addirittura obbligatorio per legge.

Anche per l'eterologa è stato riconosciuto il diritto all'obiezione di coscienza. Ritiene probabile il rischio, già tante volte denunciato per l’interruzione di gravidanza, che un numero troppo alto di obiettori renda di fatto impossibile accedere all'eterologa?
Non vedo un rischio reale in questo settore, tranne quello già in essere nei centri cattolici dove la Fecondazione in vitro non è ammessa. La ragione sta nel fatto che chi ha deciso di lavorare nell’ambito della procreazione medicalmente assistita ha già compiuto la scelta di agire per garantire a una coppia tutte le possibilità a disposizione per avere figli là dove non sia possibile averne naturalmente. L’obiezione, quindi, può riguardare un centro rispetto ad alcune tecniche, ma ritengo improbabile che possa essere la scelta individuale di un medico.
 
Lucia Conti

19 novembre 2015
© Riproduzione riservata

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