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Quando il tumore diventa ‘resistente’ anche alle nuove terapie. Come superare l’ostacolo

di Maria Rita Montebelli

Uno studio americano getta luce sui meccanismi che portano i tumori a diventare insensibili agli inibitori dell’EGFR, potenti terapie a target di nuova generazione. Il tumore è capace di eludere il blocco alla sua proliferazione indotto dalla terapia attivando dei meccanismi di ‘scorta’.  Ma presto sarà forse possibile superare, il problema associando agli inibitori di EGFR  una nuovissima classe di farmaci, gli inibitori di AXL

17 MAR - Gli inibitori di EGFR, antitumorali di nuova generazione consentono di offrire ai pazienti un trattamento su misura, basato sul loro identikit genetico; purtroppo non funzionano su tutti e a volte, dopo un’iniziale risposta, il tumore diventa ‘resistente’ a queste terapie.
Un studio condotto dai ricercatori del MIT e del Massachusetts General Hospital, incentrato sugli inibitori delle chinasi, rivela per la prima volta come fa il tumore ad ‘inceppare’ il funzionamento di questi farmaci. In particolare i ricercatori americani, nel loro lavoro pubblicato su Cancer Discovery, affermano di aver scoperto quali sistemi di backup le cellule tumorali mettono in campo, quando gli inibitori delle chinasi colpiscono il bersaglio principale. Ed è già pronta la soluzione: colpire contemporaneamente entrambi i bersagli, il meccanismo principale e quello di ‘scorta’, con una terapia di associazione. Questa strategia terapeutica, almeno sugli animali da esperimento, ha dato ottimi risultati.
 
“Il nostro studio ha messo in evidenza un meccanismo in precedenza sfuggito all’attenzione degli scienziati, coinvolto nella resistenza ai farmaci a target – afferma Douglas Lauffenburger, professore di bioingegneria e direttore del Department of Biological Engineering del MIT – La presenza di questo meccanismo si associa ad una scarsa risposta ad alcuni inibitori delle chinasi nei pazienti. Abbiamo inoltre dimostrato che nel topo l’aggiunta di un secondo farmaco mirato contro il meccanismo responsabile di questa resistenza consente agli inibitori delle chinasi di tornare a fare il loro lavoro.”
 
Gli inibitori delle chinasi sono farmaci utilizzati su una serie di tumori, quali quello della mammella e dell’ovaio; il loro meccanismo d’azione consiste nell’interrompere quelle vie di segnale cellulare che portano le cellule a crescere, proliferare o diventare invasive. In genere vengono prescritti ai pazienti che presentano sulle cellule tumorali un’iperespressione dell’EGFR (epithelial growth factor receptor).
A volte però inspiegabilmente questi farmaci non funzionano, anche laddove avrebbero tutte le carte in regola per farlo. Metà di questi fallimenti terapeutici sono imputabili a mutazioni genetiche che consentono alle cellule tumorali di eludere l’azione del farmaco; l’altra metà restava finora inspiegabile.
 
Partendo da studi condotti in passato sull’endometriosi, il gruppo di Boston ha cominciato a sospettare la presenza nelle cellule tumorali di un meccanismo ‘ombra’ in grado di subentrare quando quello principale veniva bloccato dal farmaco. In particolare in precedenza i ricercatori americani avevano scoperto che le cellule endometriali invasive potevano sviluppare una ‘dipendenza’ da un segnale di crescita e che questa via di segnale fosse in grado di interrompere altre vie di crescita. In questo modo sono arrivati a scoprire che i farmaci in grado di inattivare il meccanismo principale di crescita, come effetto collaterale andavano ad attivare i sistemi di backup. A questo punto hanno deciso di andare a vedere se questo fosse quello che si verifica anche nelle cellule tumorali. Per questo hanno preso in esame melanomi e carcinomi della mammella tripli negativi, due forme di tumore molto aggressive, spesso indotte da ligandi dell’EGFR ossia da molecole in grado di attivare questo recettore che aiuta le cellule tumorali a diventare invasive e a metastatizzare.
 
Quando un ligando attiva il recettore EGFR, questo scatena una cascata di reazioni all’interno della cellula che non solo facilitano la crescita e la diffusione delle cellule cancerose, ma che attivano anche dei sistemi di feedback. In particolare alcuni enzimi (proteasi) staccano i ligandi dell’EGFR dalla superficie cellulare, consentendo loro di andarsi a legare anche ad altri recettori e rinforzando in questo modo il segnale di invasività.  Ma non è tutto. Le stesse proteasi vanno a distruggere altri recettori in grado di innescare altri pathway di pro-invasività così che alla fine il tumore per crescere diventa completamente dipendente dalla via dell’EGFR, ‘rinunciando’ a tutte le altre strade.
 
In questo modo, quando si va a trattare il paziente con un inibitore delle chinasi, si interrompe sia la via dell’EGFR , che il ‘lavoro’ delle proteasi; in questo modo le vie di backup che erano state silenziate in precedenza, riprendono a funzionare e il tumore a crescere.
 
Nello stesso studio, i ricercatori americani hanno dimostrato anche che frammenti di questi recettori fatti a pezzetti dalle proteasi possono essere ritrovati nel sangue circolanti e il loro livello dà la misura di quanto efficacemente stanno funzionando gli inibitori di EGFR in un particolare paziente. Un elevati livello di questi frammenti proteici sta anche a suggerire che con buona probabilità i sistemi di backup sono pronti ad entrare in azione, inficiando così l’azione degli inibitori delle chinasi. Al contrario, bassi livelli di queste proteine recettoriali suggeriscono che i sistemi di backup non rappresentano una minaccia per il paziente.
 
“In questo modo saremo in grado di individuare – sostiene Keith Flaherty, direttore di Developmental Therapeutics presso il MGH Cancer Center - quali soggetti potranno godere a lungo dei benefici del trattamento e quali invece sono portatori di un tumore che tende ad adattarsi rapidamente al farmaco e a bypassarlo. Il tutto grazie a questo esame del sangue che può essere effettuato all’inizio della terapia o nei primissimi giorni dall’avvio del trattamento”.
 
Gli autori del lavoro ritengono infine che i soggetti con un’importante attività dei sistemi di backup dovrebbero essere trattati contemporaneamente con un inibitore dell’EGFR, associato ad un farmaco in grado di colpire il pathway secondario. Una molecola attualmente al vaglio delle sperimentazione cliniche, che potrebbe essere candidata a questa terapia di associazione, è l’inibitore AXL. Nella parte di sperimentazione condotta sui topi, i ricercatori del MIT hanno dimostrato che questa strategia terapeutica di associazione (inibitore di EGFR + inibitore di AXL) è molto più efficace rispetto alla somministrazione disgiunta dei singoli farmaci.
 
Maria Rita Montebelli

17 marzo 2016
© Riproduzione riservata

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