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IAS 2011: lotta all'Aids verso una svolta


Dopo la cronicizzazione della malattia resa possibile dall’avvento della Haart nella metà degli anni ’90, sembra essere prossima un’altra tappa storica della lotta all’Aids: il trattamento precoce dei pazienti infettati dal virus consente di arrestare il contagio.

18 LUG - Considerare la lotta all’Aids una guerra vinta sarebbe da illusi, ma una battaglia per volta, la malattia fa sempre meno paura. Forse troppo poco paura: “ci sono segnali preoccupanti che indicano una ripresa delle infezioni: in alcune zone della Francia si registra un’incidenza simile a quella del Botswana, a Washington i numeri sono simili a quelli dell’Uganda. I comportamenti e i contesti sociali agevolano la trasmissione del virus, e la percezione del rischio è bassa”, ha sottolineato Stefano Vella, Direttore Dipartimento del Farmaco all'Istituto Superiore di Sanità, Co-chairman di IAS 2011 in un incontro a margine dell’International AIDS Society - Conference on Pathogenesis, Treatment and Prevention of HIV Infection.Al di là dei timori di una recrudescenza della malattia, però, a 30 anni dall’esplosione dell’Aids, “grazie ai farmaci siamo stati in grado di cronicizzare l’infezione”, ha aggiunto Vella. Oggi l’aspettativa di vita di un ventenne che si infetta e ha una diagnosi tempestiva è prossima ai 70 anni. Niente a che vedere con quel che succedeva un ventennio fa, quando la diagnosi di Aids era né più né meno che una sentenza di morte. Merito della Haart (Highly Active Antiretroviral Therapy), il cocktail di antiretrovirali che ha consentito di neutralizzare il virus pur senza riuscire debellarlo definitivamente dall’organismo.
Ora, come nel 1996 - quando la Haart fu per la prima volta resa disponibile - la guerra all’Aids potrebbe essere di fronte a un’altra battaglia di grande importanza: “è quella che è stata definita «treatment is prevention»” ha aggiunto Vella: diversi studi negli ultimi mesi hanno evidenziato come l’impiego più precoce delle terapie antiretrovirali permetta di abbattere la carica virale delle persone infette, ridurre la carica complessiva di virus circolante all’interno delle comunità e diminuire drasticamente il rischio di trasmissione del virus. In altri termini, il trattamento precoce, togliendo alle persone infette la capacità di contagiare, potrebbe consentire di arrestare, o quanto meno ridurre drasticamente, il contagio. Non è la parola fine all’epidemia di Aids, ma di certo un qualcosa di molto vicino.
Il freno maggiore al raggiungimento di questo obiettivo è la scarsa consapevolezza dell’infezione, almeno nei Paesi a economia avanzata. In Italia, ha spiegato Massimo Andreoni, Ordinario di Malattie Infettive dell'Università di Roma Tor Vergata, “la maggior parte dei contagi avviene per via sessuale tra eterosessuali che non percepiscono il rischio nel fare sesso non protetto. E circa la metà delle persone che giungono alle nostre cliniche hanno contemporaneamente la diagnosi di sieropositività e di Aids, con una grave compromissione clinica”. Significa che per lungo tempo sono stati inconsapevoli della malattia contribuendo perciò al contagio e consentendo al virus di produrre danni che renderanno meno efficace il trattamento. “Se il paziente arriva alla diagnosi abbastanza precocemente, non dovrebbe più morire di Aids”, ha affermato Giuliano Rizzardini, direttore Dipartimento Malattie Infettive dell'Ospedale Luigi Sacco di Milano. “Ma numerosi pazienti giungono tardi alla diagnosi, con infezioni opportunistiche già manifeste e in questi casi occorrono farmaci da subito potenti e rapidamente efficaci per ristabilire ordine. Sarebbe opportuno usare al meglio all’inizio tutte le cartucce buone e poi, ottenuta una buona risposta, passare alla gestione della stabilizzazione del paziente”.
Intanto, l’aumento della sopravvivenza dei pazienti reso possibile dai nuovi farmaci, pone la comunità medica di fronte a un’ulteriore sfida: quella dell’invecchiamento dei malati.
“I farmaci che impieghiamo contro l’Hiv/Aids sono stati testati su soggetti giovani, complessivamente in buona salute e quasi sempre di sesso maschile. Ne sappiamo poco di come reagiranno soggetti cinquantenni, affetti da più patologie e magari donne”, ha sottolineato Marco Borderi, Dirigente Medico I livello U.O. Malattie Infettive dell'A.O. Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna e Direttore della rivista HAART. È questo il cambiamento epidemiologico che sta investendo l’Aids. E, a fianco del cambiamento epidemiologico, emergono caratteristiche cliniche della malattia insospettabili nella prima fase dell’epidemia di Aids, quando la sopravvivenza alla diagnosi non era che di qualche anno e l’immagine del malato era associata alle chiazze tipiche del sarcoma di Kaposi che caratterizzava il quadro clinico.
“In passato le manifestazioni cliniche della malattia erano quelle legate all’immunodeficienza, oggi sono soprattutto quelle legate alla senescenza precoce dei pazienti, guidata dai meccanismi di infiammazione cronica e immunoattivazione, con danno a carico dei sistemi di organo ad esempio a carico del sistema cardiovascolare, con il rischio di infarto o comunque di malattia coronarica o anche di malattia cerebrovascolare”, ha spiegato Andrea Antinori, direttore Malattie Infettive all'INMI Lazzaro Spallanzani di Roma. “Ma questa infiammazione cronica causa effetti anche su rene, fegato, ossa e altri organi bersaglio. E può essere particolarmente rilevante il danno neurocognitivo”. 

18 luglio 2011
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