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Infezioni delle vie urinarie: forse si riuscirà a trattarle senza antibiotici

di Maria Rita Montebelli

L’idea di una neolaureata potrebbe rivoluzionare il trattamento delle infezioni delle vie urinarie causate da Escherichia coli, molto frequenti nelle donne e assolutamente prone alle recidive. La soluzione alternativa agli antibiotici è rappresentata dal mannoside, una sorta di ‘scalpello molecolare’ che mette fuori uso il sistema di attacco di questi batteri (il ‘pilo’) alla parete vescicale. Lo studio sui topi, pubblicato su Nature, è stato un successo. Ora bisogna aspettare i risultati sull’uomo

14 GIU - A caccia di Escherichia coli con un’esca molecolare, al posto dei comuni antibiotici, contro le infezioni delle vie urinarie. E’ la proposta che viene da uno studio della Washington University School of Medicine (St. Louis, USA), pubblicato come lettera su Nature.
 
Le infezioni delle vie urinarie (UTI) sono molto frequenti e tendono a recidivare , anche dopo un adeguato trattamento (il 9% delle prescrizioni antibiotiche negli USA riguardano proprio le UTI). La maggior parte di queste infezioni sono sostenute da Escherichia coli, un batterio che dall’apparato digerente ‘migra’ facilmente verso il tratto urinario, dove dà luogo a queste infezioni.
 
Ma all’orizzonte adesso si profila un trattamento alternativo agli antibiotici. Secondo gli autori americani infatti, una sorta di ‘esca’ molecolare potrebbe colpire e ridurre così di numero questo tipo di batteri nell’intestino  e questo sarebbe sufficiente a ridurre il rischio di sviluppare le UTI.
 
“Il fine ultimo delle nostre ricerche è di aiutare i pazienti a gestire e prevenire il problema, assai frequente, delle UTI recidivanti – spiega Scott J. Hultgren, Professore di Microbiologia Molecolare– consentendo allo stesso tempo di non peggiorare il problema su scala mondiale dell’antibiotico- resistenza. Questo nuovo composto infatti potrebbe consentire di trattare le UTI, senza ricorrere agli antibiotici”.
 
Ogni anno sono oltre 100 milioni nel mondo le persone che si ammalano di infezione delle vie urinarie e, nonostante una terapia antibiotica ben condotta, almeno uno su 4 è destinato a presentare una recidiva di UTI nell’arco dei successivi 6 mesi. Al di là dei sintomi, decisamente fastidiosi (febbre, dolore pelvico, disuria, pollachiuria e urgenza), in alcuni casi queste infezioni possono andare a coinvolgere i reni (pielonefrite) o diventare sistemiche (urosepsi), risultando così potenzialmente fatali.
 
La maggior parte delle infezioni delle vie urinarie è sostenuta da Escherichia coli, un batterio sostanzialmente innocuo nell’intestino, ma patogeno nelle vie urinarie. Di qui l’idea (avuta da una neolaureata, Caitlin Spaulding) che la riduzione della carica batterica intestinale possa proteggere dalle UTI e da altre infezioni recidivanti.
 
Per prima cosa, i ricercatori americani sono andati ad individuare i geni che consentono a E. coli di sopravvivere nell’intestino; in questo modo è stato possibile individuare un set di geni codificanti per il ‘pilo’, una piccola appendice a forma di capello, presente sulla superficie di questo batterio e che gli consente di ‘attaccarsi’ ai tessuti come un velcro. Senza questa appendice ‘appiccicosa’, E. coli non riesce a sopravvivere nell’intestino. Studi condotti in passato avevano già consentito di dimostrare che questo pilo aderisce al mannosio, uno zucchero presente sulla superficie della vescica; ed è proprio questo ‘aggancio’ alla parete vescicale che consente ad Escherichia coli di evitare l’azione dilavante della minzione; e a riprova di questo, i batteri privati del pilo non sono in grado di provocare UTI nel topo.
 
Già in passato, due degli autori di questo nuovo studio (Hultgren e James W. Janetka, professore associato di biochimica e biofisico molecolare alla Washington University) avevano modificato chimicamente la struttura del mannosio per creare delle nuove molecole, dette mannosidi, simili al mannosio, ma modificati in modo che i batteri ci si vadano ad ancorare in maniera più solida con i loro pili. Al contrario dei recettori per il mannosio tuttavia, queste molecole non sono adese alla parete vescicale e quindi i batteri che vi si attaccano, vengono eliminati con le urine. Avendo i ricercatori scoperto che è sempre attraverso il pilo che Escherichia coli si lega alla parete dell’intestino, hanno ipotizzato che un trattamento a base di mannosidi fosse in grado di ridurre il numero di E. coli presenti nell’intestino e forse, in questo modo, ridurre il rischio di un’infezione delle vie urinarie.
 
Per valutare la loro ipotesi, i ricercatori americani hanno inserito un ceppo patogeno di E. coli nella vescica e nell’intestino di un gruppo di topi, per simulare quanto accade nell’uomo (nelle donne con UTI, i batteri che danno luogo a queste infezioni sono in genere gli stessi che colonizzano l’intestino). In seguito, agli animali sono state somministrate tre dosi di mannoside e, al termine del trattamento, si è provveduto a misurare il numero di batteri nelle vesciche e nell’intestino degli animali. Il risultato è stato quello di una pressoché completa eradicazione dei batteri patogeni a livello della vescica, mentre a livello intestinale il loro numero è risultato ridotto di cento volte, passando così da 100 milioni per campione a 1 milione.
 
“Non siamo arrivati ad eliminare del tutto questi batteri dall’intestino – commenta Spaulding -  ma di certo questi risultati sono molto incoraggianti. Ridurre il numero dei batteri patogeni nell’intestino, significa averne meno in grado di migrare nel tratto urinario per dar luogo ad un’infezione.”
 
Un potenziale svantaggio di questa strategia è che non solo Escherichia coli ma anche altri batteri ‘innocenti’ della flora batterica intestinale sono dotati di pilo; il mannoside di certo andrebbe a ridurre anche il loro numero e questo potrebbe creare degli squilibri  a livello della flora batterica, aprendo potenzialmente la porta ad infezioni da parte di altri microbi, esattamente come succede dopo una terapia antibiotica. Per verificare se questo fosse il caso, i ricercatori americani sono andati a valutare anche la composizione della flora batterica intestinale dopo il trattamento con mannoside, riscontrando che questo aveva avuto effetti minimali sugli altri batteri. Di certo, un netto vantaggio rispetto allo stravolgimento della flora batterica comportato abitualmente dalle terapie antibiotiche.
 
Il trattamento che abbiamo messo a punto  - commenta Spaulding – funziona un po’ come uno scalpello molecolare, in grado di eliminare esattamente i batteri dei quali vogliamo sbarazzarci, senza alterare il resto della comunità microbica. Inoltre, visto che il mannoside non è un antibiotico, potrebbe essere forse utilizzato per trattare anche delle UTI causate da ceppi batterici resistenti agli antibiotici, un fenomeno questo in rapida crescita”.
 
Le premesse per una vera e propria rivoluzione nel trattamento delle UTI insomma ci sono tutte. Adesso però questa ipotesi andrà testata sull’uomo.
 
Maria Rita Montebelli

14 giugno 2017
© Riproduzione riservata

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