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Scienza e politica di fronte al Coronavirus

di Ivan Cavicchi

Pochi giorni fa in una conferenza stampa il premier Conte ha dichiarato una cosa che mi ha molto colpito: “Quando dico che ci basiamo su informazioni tecnico scientifiche non dico che facciamo alla lettera quello che ci dicono i tecnici. Noi abbiamo una responsabilità politica. Valutiamo a tutto tondo gli aspetti in gioco. Noi seguiamo la massima trasparenza. Ma io e i miei ministri ci assumiamo tutta la responsabilità”. La questione di fondo che il presidente del Consiglio ha posto è quella del rapporto tra “scienza” e “politica”

16 MAR - La pandemia di coronavirus ha imposto su scala mondiale ormai la questione fondamentale del nostro art. 32, cioè del rapporto tra diritto individuale alla salute e interesse collettivo, tra ciò che è evidente a livello di singolo e ciò che è rilevante a livello di collettività, quindi in poche parole tra politica e scienza.
 
Valutare e sottovalutare
A tutti noi è sembrata incomprensibile l’esitazione di queste settimane, da parte dei paesi europei e degli Usa, a intervenire in modo tempestivo per bloccare la circolazione del virus come se costoro non si rendessero conto del pericolo. Solo ora per fortuna dopo settimane di ritardo si comincia a fare qualcosa.
 
In realtà la teoria della sottovalutazione con l’interscambio che c’è a livello globale dell’informazione scientifica non può essere data. Tutti sanno, compreso Trump, che il coronavirus è una tragedia.
 
La spiegazione è puramente politica e per certi versi culturale e riguarda il diverso rapporto tra diritto individuale e interesse collettivo di questi Paesi che ovviamente ha a che fare con i diversi sistemi di welfare che ci sono nel mondo.
 
I Paesi come gli Usa già ora tollerano che le persone senza reddito siano abbandonate, i Paesi che ancora si rifanno al mutualismo hanno della salute una visione contrattualistica, (è il contributo che compra la prestazione), mentre nei Paesi come il nostro cioè un sistema nazionale su base universalistica, il diritto alla salute coincide esattamente come recita l’art 32 con l’interesse collettivo.
 
Probabilmente la pandemia di coronavirus avrà tra i tanti effetti anche quello di indurre i Paesi a riflettere proprio sui loro sistemi di welfare. Il sistema assicurativo difronte ad essa è del tutto fuori luogo, esattamente come i sistemi mutualistici, mentre quelli universalistici sono i più adatti e più efficienti. Difronte alla pandemia dovrà essere lo Stato in larga misura ad affrontare tanto le gravi insufficienze del sistema assicurativo che quelle altrettanto gravi del sistema mutualistico come sanno bene tanto Trump che Macron e la Merkel. Ma se interviene lo Stato, almeno difronte al coronavirus, tutti i sistemi di welfare diventano di fatto universalistici e quindi finanziati dalla collettività partendo dal postulato del bene comune
 
Da noi il coronavirus non solo ci ha fatto capire che il regionalismo differenziato non è un affare per nessuno neanche per le regioni secessioniste, ma ci ha fatto capire che il ritorno al mutualismo, il sistema multi-pilastro, la seconda gamba, il welfare aziendale sono davvero delle pessime idee.
 
Politica e scienza
Pochi giorni fa in una conferenza stampa il premier Conte ha dichiarato una cosa che mi ha molto colpito: “Quando dico che ci basiamo su informazioni tecnico scientifiche non dico che facciamo alla lettera quello che ci dicono i tecnici. Noi abbiamo una responsabilità politica. Valutiamo a tutto tondo gli aspetti in gioco. Noi seguiamo la massima trasparenza. Ma io e i miei ministri ci assumiamo tutta la responsabilità.”
 
Dopo di che, il presidente del Consiglio ha onestamente aggiunto “In questo momento anche gli scienziati non hanno evidenze scientifiche rispetto ad un virus che è nuovo, è chiaro che anche loro hanno difficoltà a dire con certezza alcune cose”. (QS, 5 marzo 2020).
 
La questione di fondo che il presidente del Consiglio ha posto è quella del rapporto tra “scienza” e “politica” che vale come il rapporto, non sempre facile e scontato, tra il concetto di “evidenza” e quello di “rilevanza”. Vediamo di che si tratta.
 
Evidenza e rilevanza
“L’evidenza”, come è noto, è una verità scientifica convenzionale definibile organizzando in un certo modo i dati disponibili, la “rilevanza” è una interpretazione politica della realtà che attribuisce ad un fatto o a dei dati un certo “grado di importanza” commisurando per quello che è possibile i suoi effetti potenziali su una collettività ricorrendo a più logiche: di opportunità, di liceità, di fattibilità, di plausibilità e ovviamente anche di scientificità.
 
“L’evidenza” è sempre ad una logica in genere di natura lineare nel senso che in pratica funziona come un sillogismo: se i dati sono x allora necessariamente l’evidenza è y.
 
La “rilevanza” ha a che fare sempre con la compresenza e la coesistenza di più verità, tra le quali naturalmente anche quella scientifica, e, per essa il “necessariamente”, cioè l’obbligo che per l’evidenza funziona come il fare per forza una cosa, non vale sempre. Essa è costretta a scegliere, nel momento che sceglie, inevitabilmente, comporta una responsabilità politica e quindi personale. Esattamente come ha dichiarato Conte.
 
Secondo me se i governanti degli altri Paesi nei confronti della pandemia, non saranno in grado di leggere i rapporti tra rilevanza e evidenza, cioè se costoro non si prenderanno “responsabilità” politiche giuste, rischiano di non essere rieletti. Trump in testa. Questo per dire del potere “politico” non solo “biologico” di questo coronavirus. Anche il futuro del nostro quadro politico da oggi in poi dipenderà da una cosa in più rispetto agli ordinari rapporti di forza cioè dal coronavirus.
 
Imposizione e scelta
L’evidenza scientifica, per molti, vale come un imperativo cioè un comando per cui un medico, un politico, un amministratore dovrebbe limitarsi ad obbedirvi. La rilevanza avendo molti generi di verità da gestire ha due obblighi quello:
• della compossibilità cioè deve scegliere le verità che non sono tra loro in contraddizioni,
• della convenienza cioè deve decidere cosa è meglio nei confronti di un contesto dato, di una città, di un Paese.
 
Spesso la rilevanza ha a che fare con evidenze scientifiche in contraddizioni con altri generi di evidenze (economiche, sociali, morali, ecc) ebbene in questi casi, la rilevanza deve scegliere cosa fare.
 
Donato Greco nella sua intervista-sfogo (QS, 5 marzo 2020), ci ha spiegato qualche giorno fa che la chiusura delle scuole è stata una decisione difforme alle evidenze scientifiche disponibili, fino a parlare, esagerando forse un po’, di “credibilità del crollo della scienza”. Egli ha, di fatto, sostenuto il primato dell’evidenza scientifica sulla politica ma in una epidemia come la nostra questo primato non può essere dato come assoluto.
 
L’uso pragmatico delle evidenze
In questi giorni è uscito il mio libro che si intitola “L’evidenza scientifica in medicina” e il cui sottotitolo è “l’uso pragmatico delle verità” (Nexus edizioni). La sua idea di fondo che, date le circostanze, mi piace anticipare in attesa di discuterne meglio, è che l’evidenza scientifica è, per la medicina, un genere di verità fondamentale e irrinunciabile, ma che, soprattutto se usata per curare le malattie e i malati e quindi anche le epidemie, cioè in relazione a gradi comunque alti di complessità, implica da parte di chi se ne serve, politica compresa, molte cautele, non poche abilità ragionative, e una grande capacità di discernimento e persino in certi casi, come l’esempio delle scuole chiuse, il coraggio di rinunciarvi.
 
L’evidenza scientifica non è come pensano alcuni, una verità dogmatica e assoluta da applicare semplicemente ad una epidemia, ma implica sempre un suo uso pragmatico cioè il suo uso necessita sempre che la valutazione scientifica sia integrata con altri generi di valutazioni per lo più politiche, sui contesti, sulle organizzazioni sociali, sulle realtà individuali e collettive. E’ il discorso di Conte. In una epidemia di coronavirus l’uso della evidenza deve per forza essere commisurato ai problemi della rilevanza. Guai se così non fosse. Ma la stessa cosa a ben vedere vale per la cura di ogni malato.
 
Quanti misfatti in nome delle evidenze
Alcuni esperti hanno sempre sostenuto da convinti scientisti disprezzando sotto sotto la politica per la sua proverbiale ignoranza che debba essere la scienza con le sue evidenze a guidarla. Ma è quando la politica segue pedissequamente la scienza che nascono i guai.
 
Prima del coronavirus in nome delle evidenze scientifiche la politica ha fatto cose discutibili:
• un decreto appropriatezza che massacrava tanto la professione medica che i diritti dei malati,
• ha ridefinito al ribasso i lea quindi le prestazioni di diritto,
• una legge sui vaccini giusta nei suoi scopi ma che non è riuscita, proprio a causa del suo spiccato scientismo, a soddisfare a un tempo le esigenze dell’obbligo e quelle della libertà, compromettendo presso ampi strati della popolazione la credibilità della medicina scientifica.
 
In nome dell’evidenza molti medici si sono ridotti a fare una medicina protocollare, difensivistica, subalterni ad algoritmi e a linee guida, ignorando che un uso non pragmatico delle evidenza accresce gli errori, gli insuccessi e quindi il contenzioso legale.
 
Ripeto sul valore dell’evidenza scientifica non si discute ma sul modo di usarla pragmaticamente , si deve discutere eccome.
 
Appendice per rispondere a Bruno Ravera
Bruno Ravera mi ha rivolto in calce al suo articolo sul documento della Siaarti (QS, 13 marzo 2020) un quesito che, ripropone, il problema di fondo del rapporto tra scienza e politica e quello tra rilevanza e evidenza: “Nel caso in cui in ospedale vi fossero 10 posti letto di terapia intensiva e 20 ammalati gravi, dopo aver esperito naturalmente tutte le possibilità, cosa faresti tu?
 
Caro Bruno farei né più e né meno quello che probabilmente faresti tu, sperando da laico che tu da cattolico non abbia problemi di coscienza a buttare qualcuno giù dalla torre, farei ciò che propone il buon senso della Siaarti, ma con una differenza di fondo: la decisione di privilegiare, a parità di bisogno di cura, in una situazione estrema, i malati più giovani su quelli più anziani, deve essere una decisione politica, esattamente come quando si decide una zona rossa, o quando si blocca un intero paese, o quando si aumentano il letti oltremisura nelle terapie intensive.
 
Sospendere, in casi straordinari, l’art. 32, quindi il diritto alla cura per tutti i cittadini, equivale per importanza politica a sospendere in casi straordinari la libertà delle persone, per cui non può essere solo una decisione clinica delegabile ad una società scientifica ma deve essere una decisione politica che a sua volta rientra in una estrema ratio più ampia quindi una misura eccezionale tra più misure eccezionali e che per questo si giustifica.
 
Questa decisione politica che riguarda la “rilevanza”, ovviamente va presa in pieno accordo con chi rappresenta le “evidenze” vale a dire le società scientifiche interessate e non solo.
 
I medici hanno la responsabilità di definire autonomamente i modi di curare le malattie e tutti i criteri per governare le complessità cliniche, quindi hanno la responsabilità della gestione delle evidenze e di eseguire in caso di emergenza le indicazioni del governo
 
La politica ha la responsabilità di definire criteri per la redistribuzione delle opportunità di cura quindi per l’accesso alle cure che ricordo sono criteri di giustizia quindi ha la responsabilità del governo della rilevanza e di dare ai medici criteri operativi.
 
A me del documento Siaarti, una sola cosa non convince ed è quando in una situazione di estrema ratio gli anestesisti fanno i medici, i giudici e i politici.
 
Per questi super-anestesisti temo due rischi:
• il primo è legale nel senso che se non ci fosse preventivamente una sospensione straordinaria dell’art 32 a fronte di un contezioso contro i medici già alto rischierebbero di passare il loro tempo nei tribunali, perché è difficile nella società degli esigenti, anche con il coronavirus, accettare l’idea di non essere curati perché si è vecchi o perché si ha un’alta co-morbilità o perché con le statistiche si misura il grado di sopravvivenza,
 
• il secondo è il rischio di guadagnarsi come anestesisti malgrado la loro straordinaria funzione, che sia chiaro non ho mai inteso sottovalutare, una immagine pubblica deteriore come erano una volta i “beccamorti” acuendo i già gravi problemi di sfiducia sociale verso la professione tutta e verso la medicina scientifica.
 
Ricordo che il “beccamorto” nel medioevo era il medico che per accertare il decesso mordeva l’alluce del piede del defunto poi diventato becchino fino ad indurre il popolo ad adottare nei suoi confronti gesti scaramantici ovviamente inaccettabili se fossero rivolti agli anestesisti.
 
Caro Bruno, ribadisco quello che ho scritto e che anche tu mi pare non abbia colto: trovo pericoloso delegare agli anestesisti le scelte morali che spettano alla politica e ancora più pericoloso che gli anestesisti assecondino una così delicata vicarianza. (QS, 12 marzo 2020).
 
Il nodo vero, al quale, scortesie a parte, nessun anestesista mi ha risposto, compreso la presidente della Siaarti dalla quale speravo venisse una parola conclusiva di saggezza, il che per un analista quale io sono ha un grande significato, è cosa debba essere “ammissibile” e cosa no, inducendomi a pensare che sotto sotto, lo scopo sottointeso, alla fine, sia, e non solo nei casi di emergenza, la massima ammissibilità, costi quel costi.
 
Il caso Veneto
Ieri questo giornale ci ha informati che tutti i direttori generali delle aziende Venete hanno ricevuto una circolare (n 120693) a firma di Mantoan direttore generale dell’area sanitaria e sociale della regione Veneto, con la quale si informano le strutture sanitarie regionali, pubbliche e private, del consenso espresso dal Comitato Tecnico Scientifico COVID-19 regionale su un documento redatto da tre esperti (bioeticisti e anestesisii) nel quale si auspica di applicare in “modo omogeneo” il documento Siaarti al fine di evitare “strategie assistenziali e decisionali difformi nel territorio della regione”. Leggo, nella intestazione, che la circolare è stata mandata per conoscenza al presidente Zaia e all’assessore alla sanità Lanzarin, per cui è possibile che non sia stata concordata.
 
Se così fosse, a parte ritenere intollerabile che dei tecnici prendano decisioni che decidono della vita e della morte delle persone, non mi resta che aspettare di conoscere cosa ne pensa il governatore Zaia ma anche cosa ne pensa Conte e i suoi ministri quando verranno a sapere che in Veneto ma non nelle altre regioni, potrebbe essere anche il criterio dell’età a decidere quali malati di coronavirus accederanno alle cure. Se per sospendere il dettato costituzionale basta l’ambizione di qualche società scientifica e di qualche funzionario allora siamo proprio fuori di testa. 
 
Ivan Cavicchi

16 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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