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Mercoledì 31 AGOSTO 2022
Dossier infermieri. Numeri, carenza, retribuzioni e formazione

I NUMERI E LE CARATTERISTICHE ATTUALI
Gli infermieri attivi su 460mila iscritti agli albi sono circa 395.000 di cui 277.171 dipendenti del Servizio sanitario nazionale. 

Poi ci sono 45.000 liberi professionisti puri (che esercitano cioè solo la libera professione) e circa 75.000 dipendenti da strutture private e altri enti.

L’età media degli infermieri lombardi è di 48,8 anni, in linea con la media nazionale di 48,7 anni e pur essendo una delle professioni sanitarie mediamente più “giovani” l’impossibilità di effettuare assunzioni legata alle razionalizzazioni e ai blocchi decennali del turn over hanno fatto innalzare l’età media in ragione di poco meno di un anno ogni sei mesi a partire dal 2018, quando l’età media era di circa 45 anni.

INFERMIERI E PNRR
Nella riforma dell’assistenza territoriale prevista dal PNRR e resa attuativa dal DM 77/2022, è previsto lo sviluppo della domiciliarità e della prossimità e in questo senso un compito fondamentale  è assegnato all’infermiere di famiglia e comunità (IFeC), previsto in prima battuta dal Patto per la salute 2019-2021, poi formalizzato nella legge 77/2020 e ora descritto nel DM 77/2022 con uno standard di un infermiere ogni 3000 abitanti.

L’infermiere di famiglia e comunità è la figura professionale di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica, ai diversi livelli di complessità, in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità in cui opera. 

Non solo si occupa delle cure assistenziali verso i pazienti, ma interagisce con tutti gli attori e le risorse presenti nella comunità per rispondere a nuovi bisogni attuali o potenziali.

Le Regioni che hanno già attivo e operativo l’infermiere di famiglia e comunità hanno registrato un calo del 10% dei ricoveri impropri (che considerando l’80% di quelli a cui non segue un ricovero – circa 13 milioni su 15 milioni totali nel 2020 - equivarrebbero nel 2020  a circa 1,3 milioni di accessi in meno al pronto soccorso a livello nazionale).

La presenza di infermieri di famiglia e comunità ha aumentato in queste Regioni di oltre il 15% la rapidità di intervento domiciliare, riducendo ulteriormente il ricorso improprio agli ambulatori dei Mmg e ai pronto soccorso di un numero di accessi almeno simile al precedente e portando la riduzione del ricorso al pronto soccorso a quota -2.600.000 accessi circa.

Il decreto di applicazione del PNRR ha dichiarato una necessità di circa 20mila infermieri di famiglia e comunità (IFeC) oltre che di circa altrettanti infermieri per i vari nuovi servizi sul territorio che consentirebbero di ‘alleggerire’ i pronto soccorso degli ospedali. Ma di infermieri non ce ne sono. E questo fa aumentare i tempi di attesa al triage e la risposta assistenziale di prossimità creando disagi agli utenti e aumentando i rischi degli operatori presenti. 



L’organizzazione della prossimità e della domiciliarità presuppone non solo un intervento a livello sanitario, ma anche lo stretto coordinamento tra i professionisti della sanità – e in particolare gli infermieri di famiglia e comunità e dell’Assistenza domiciliare integrata – e i professionisti e le strutture del sociale.

Nella scala delle fragilità infatti devono integrarsi numerose competenze professionali di carattere sociale e sanitario e deve essere prevista l’integrazione di servizi in capo al servizio sanitario, ma anche di assistenza sociale di comptenza dei comuni.

L’identificazione tempestiva e precoce di condizioni di fragilità – inclusa quella sociale – tra la popolazione, che a vario titolo sono responsabili di un aumentato assorbimento di risorse economiche e assistenziali e che predispongono gli individui affetti allo sviluppo di eventi avversi dovrebbe consentire l’attivazione di percorsi di di approfondimento personalizzati e, conseguentemente, percorsi assistenziali ad hoc a carattere sanitario e socioassistenziale 

CARENZA
Oggi mancano circa 70mila infermieri, anche per far fronte ai nuovi standard fissati dal PNRR e stabiliti nel DM 77 di riorganizzazione dell’assistenza territoriale. I soli infermieri di famiglia e comunità necessari secondo i nuovi standard sono oltre 20mila (1 ogni 3.000 abitanti). Poi ci sono gli infermieri per l’assistenza domiciliare integrata ad  anziani e malati terminali, quelli delle Case  e Ospedali di Comunità, gli infermieri necessari alle nuove terapie intensive e subintensive nate durante la pandemia. In base alle dimensioni regionali, dei 70mila ne mancano circa il 45% al Nord, il 20% al Centro e il 35% al Sud. Rispetto alla situazione internazionale il rapporto infermieri-abitanti in Italia è di 5,5-5,6 infermieri ogni mille abitanti, uno dei più bassi d’Europa secondo l’Ocse dove la media raggiunge gli 8,8 e il rapporto infermieri-medici, che dovrebbe essere secondo standard internazionali 1:3 è, secondo l’Ocse, di 1:1,5 (la media Ocse è 2,8: il Regno Unito è nella media Ocse, la Germania raggiunge i 3,2, la Francia i 3,3, la Svizzera i 4,1).

La pandemia ha paradossalmente riequilibrato le perdite di personale che dal 2009 al 2019 avevano caratterizzato gli organici del Ssn: secondo il Conto annuale 2020, pubblicato a maggio 2022 dalla Ragioneria generale dello Stato (ministero dell’Economia), rispetto alle oltre 45mila unità di personale in meno tra il 2009 e il 2019, con l’iniezione di organici 2020 per far fronte all’emergenza si hanno oggi circa 14mila unità di personale in più.

Tra queste gli infermieri avrebbero recuperato tutte le perdite subite nei dieci anni 2009-2019 con circa 8.800 unità in più nel 2020 (dato questo già evidenziato lo scorso anno dalla Corte dei conti) che tuttavia non alleggeriscono la carenza o il fabbisogno legato ai nuovi standard del territorio, ma recuperano solo le perdite subite per i tagli legati alle razionalizzazioni di spesa e comunque azzerano del tutto i numeri già bassi di disoccupazione e sottoccupazione.

Con la pandemia poi la carenza è stata aggravata dai contagi: gli infermieri sono la categoria di professionisti della sanità che (dati INAIL) fa registrare il maggior numero di contagi, proprio per la prossimità h24 con gli assistiti che non sono mai stati lasciati soli. Da inizio pandemia i contagi (infezione e re-infezioni) registrati sono circa 320.000 e la media di contagiati – sempre da inizio pandemia - su base mensile (quindi con difficoltà a restare operativi nelle loro funzioni nell’arco dei 30 giorni) è di circa 15mila, con mesi in cui si sono raggiunti e superati anche i 28mila contagiati e altri (solo per brevi periodi estivi e non nel 2022) dove ci si è fermati a circa 500. Nella maggior parte dei casi, essendo gli infermieri la categoria professionale che fa regostrare il più alto numero di professionisti vaccinati, senza eccessiva gravità, anche se nella prima fase della pandemia si sono registrati 90 decessi per Covid.

Per incrementarne il numero è necessario un aumento dell’attrattività della professione rendendola economicamente più valida (oggi gli infermieri italiani sono tra i meno pagati d’Europa), con una migliore progressione di carriera grazie alla realizzazione di specializzazioni anche cliniche (come è quella dell’infermiere di famiglia e comunità), consentendo l’evoluzione del percorso formativo universitario. In sintesi si può dire: incremento della base contrattuale e riconoscimento economico dell’esclusività delle professioni infermieristiche; riconoscimento delle competenze specialistiche; evoluzione del percorso formativo universitario.

RETRIBUZIONI
Un infermiere italiano guadagna in media secondo il Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato 2020 (appena pubblicato) 34.711 euro l’anno lordi, cioè circa 22.600 euro netti che su tredici mensilità sono circa 1.700 euro al mese. Lo stipendio è praticamente fermo da circa 8-10 anni, dal contratto 2009, tranne per le indennità di vacanza contrattuali. La media annuale lorda del Servizio sanitario nazionale di tutte le professioni è di 42.731 euro (quindi circa 10mila in più, considerando che ad esempio i dirigenti sanitari guadagnano in media 84mila euro lordi l’anno circa). La media OCSE è di 48.100 euro lordi l’anno. Ma ad esempio in Svizzera (dove molti infermieri italiani vanno a lavorare) si sfiorano i 56mila euro, in Spagna i 55mila, in Germania i 59mila fino al top in Lussemburgo dove nel 2019 un infermiere guadagnava in media poco più di 100mila euro l’anno lordi.

FORMAZIONE E ATTRATTIVITA’ DELLA PROFESSIONE
Gli infermieri attualmente si laureano con il meccanismo del 3+2 e dopo i primi tre anni la laurea è direttamente abilitante. Ma alla fine si laurea solo il 75% degli infermieri iscritti ai corsi e di questi il 40% nei tre anni e la rimanenza in quattro o più anni. Rispetto a un turn over medio di 18mila infermieri/anno (per i pensionamenti e gli abbandoni) all’università lo scorso anno si sono raggiunti i 17.500 posti disponibili (prima non superiori ai 16mila) a fronte di una richiesta di ordini, Regioni e ministero della Salute di oltre 23mila. Dal 2001 al 2021 rispetto ai circa 400mila posti richiesti in tutto dalla professione, l’università ne ha resi disponibili circa 307mila.

La scarsa retribuzione – tra le più basse d’Europa – e la poca possibilità di carriera senza specializzazioni non rendono attrattiva la professione tanto che le domande per un posto sono ferme a 1,6 in media e su 42 Università con laurea in infermieristica (dove gli studenti in infermieristica rappresentano il 45% di tutti gli iscritti), solo 17 hanno saturato i posti a disposizione mentre 16 hanno coperto tra il 95 e il 99% dei posti, cinque tra il 90 e il 94% e due tra l’80 e l’84 per cento.

Inoltre è bassissimo il numero di docenti-infermieri ai corsi di laurea (che determinano la qualità della formazione): solo 25 (dato aggiornato a marzo 2022) Università hanno incardinato docenti MED/45 (oggi sono 40) nell'organico dei professori universitari. Il rapporto docenti-infermieri/discenti è di 1:1350 mentre in altre facoltà è ben più elevato. A odontoiatria, ad esempio, il rapporto è 1:6. Nell’ultimo anno accademico per la prima volta da 11 anni il numero dei laureati in infermieristica è sceso sotto 10mila. Inoltre, rispetto ai laureati in medicina il rapporto è sotto 1:1, mentre era 2:1 nel 2013.

“FUGHE” ALL’ESTERO
Negli ultimi 6-7 anni i laureati in infermieristica che hanno trovato lavoro all’estero sono una media di 200-250 ogni anno (il costo medio dell’istruzione universitaria per un laureato triennale è di circa 18.000 euro nei tre anni), il 2-3% in ogni anno accademico. Provengono soprattutto dagli atenei del Nord (oltre il 50%) e in ugual misura dal Centro e dal Sud (circa il 25%). Anche se l’uscita ha rallentato durante la pandemia, i numeri sono in aumento costante anno dopo anno.

Oggi lavorano all’estero circa 20mila infermieri che hanno studiato in Italia, di cui il 13% circa solo negli ultimi 5-6 anni, indice questo della scarsa attrattività della professione in Italia, sia per la difficoltà di trovare un’occupazione stabile, sia per le ridotte opportunità di carriera e, soprattutto, per il basso livello retributivo che pone il nostro Paese al 25° posto (nove posti sotto la media) nella classifica OCSE, a soli nove posti dalla Repubblica Slovacca, ultima in classifica. 

VIOLENZA SU INFERMIERI
Il 32,6% degli infermieri (circa 130mila) subisce ogni anno una forma di violenza fisica e/o verbale e lavorare nei settori di emergenza urgenza (come i pronto soccorso) raddoppia il rischio di subire aggressioni, anche per l’esasperazione legata alle lunghe attese divute alla forte carenza di personale.

Gli infermieri infatti, in quanto responsabili del triage, valutano nei pronto soccorso per primi tutti i cittadini che si presentano al pronto soccorso e di questi percepiscono le condizioni di salute, ma anche quelle di disagio sociale e psicologico. Nel 2020 gli accessi ai pronto soccroso sono stati circa 15 milioni, si cui solo il 15% ricoverati (e lo 0,3% deceduti a dimostrazione della qualità del servizio).

Un’altra causa alla base di questi numeri risiede nella carenza di infermieri negli organici: un’assistenza efficiente si ha con un rapporto infermiere paziente 1 a 6; allo stato attuale il rapporto è 1 a 12. In questo modo si restringe il tempo di cura oppure si aumenta la possibilità che l’infermiere precipiti in una condizione di ‘burnout’ (33%). Il 10,8% di chi ha subito violenza, presenta danni permanenti a livello fisico oppure psicologico

INFERMIERI E RSA
Nell’ultimo report del 2020 dell’Istituto superiore di Sanità l’indicazione è che debba essere garantita, soprattutto durante la pandemia,  la presenza di infermieri 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno e supporto medico, eventualmente attivato dagli stessi infermieri. Dalla rilevazione dell’ISS su queste strutture, è emerso che ci sono in media 2,5 medici, 8,5 infermieri e 31,7 OSS (operatori sociosanitari, che sono coordinati dagli infermieri) per struttura. Questo significa che nelle circa 3.400 RSA censite dall’ISS (convenzionate nell’80% dei casi) operano in media circa 29.700 infermieri, spesso però non strutturati e frequentemente anche volontari come lo sono stati i numerosi liberi professionisti intervenuti di loro iniziativa nelle RSA nei momenti peggiori della pandemia, dato questo che conferma la necessità di potenziare gli organici del territorio.

La carenza è stata di recente sottolineata dalle stesse associazioni che gestiscono le RSA che hanno denunciato il 40% circa di questi professionisti in meno di quanti siano necessari a garantire l’assistenza.

La carenza di infermieri nelle RSA è legata anche al fatto che specie durante la pandemia, quelli che erano presenti nelle strutture sono stati cooptati per gli ospedali.

Le RSA sono poco attrattive per gli infermieri per:

- modello organizzativo obsoleto, poco professionalizzante, in un ambito in cui l’infermiere potrebbe esprimersi al 100%, ma che viene relegato ad attività tecnico - esecutive;

- mancanza di governance infermieristica delle strutture, che potrebbe incidere positivamente su quanto sopra;

- mancanza di sviluppo di carriera, di specializzazione in area geriatrica;

- approccio assistenziale all’ambito geriatrico troppo centrato sulla presa in carico tardiva dell’ospite e mancanza assoluta di visione prospettica, che permette un approccio precoce e preventivo in ottica di invecchiamento attivo. In soldoni: vai in casa di riposo quando non ci sono altre soluzioni e non c’è un modello (più anglosassone) di “accompagnamento” alla Rsa con un aggancio progressivo dell’ospite ancora a casa. Questo è un punto fondamentale, in quanto genera molta frustrazione. Gli ospiti vivono il passaggio come “l’ultimo miglio” e i familiari spesso vivono sensi di colpa per essere “insufficienti”. Questo spesso genera conflitto;

- lo stipendio, spesso contrattualmente non è paragonabile con l’ambito ospedaliero.  

Fonte: Fnopi

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