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Venerdì 17 DICEMBRE 2021
Non si può perdere tempo per potenziare l’assistenza territoriale



Gentile Direttore,
durante la pandemia è emersa la diffusa consapevolezza che il SSN ha bisogno di strutturare meglio i servizi di prevenzione e i servizi territoriali. È forse la prima volta che sono stati unanimemente richiesti più servizi territoriali, prima ancora dei posti letto ospedalieri, per la presa in carico dei pazienti cronici anziani. C’è una necessità, certamente non recente, di modificare urgentemente l’offerta sanitaria in funzione di una domanda diversa rispetto al passato; domanda determinata dall’aumento degli anni di vita della popolazione anziana con la conseguente crescita di malattie croniche che colpiscono l’80% della popolazione oltre i 65anni e che spesso si verificano contemporaneamente nello stesso individuo. È noto che i pazienti deceduti, positivi a SARS-CoV-2, sono prevalentemente anziani con più patologie croniche.

Dopo anni di spesa sanitaria nazionale pro capite più bassa dell’Europa occidentale e con un tasso di crescita reale prossimo allo zero, il governo Draghi ha segnato una svolta sia con l’aumento del fondo sanitario nazionale (2 miliardi l'anno per tre anni), sia con lo stanziamento aggiuntivo  di 860 milioni finalizzati al finanziamento di 12mila borse di specializzazione in medicina, sia infine con il PNRR che assegna alla sanità 16,53 miliardi  di cui 7 destinati alla creazione di Case della Comunità, Ospedali di Comunità e Centrali Operative.

Le Regioni sono adesso nelle condizioni di avviare concretamente il percorso, sicuramente complesso, di potenziamento dell’assistenza territoriale; bisogna però evitare semplificazioni per non ripercorrere strade già battute in passato con risultati modesti. La prospettiva di poter utilizzare ingenti risorse per l’assistenza territoriale non deve mettere in secondo piano le tante difficoltà che hanno avuto, e continuano ad avere, le Regioni che hanno creato le attuali Case della Salute. Bisogna partire da queste per giungere alle Case della Comunità.

Si riuscirà a resistere alla tentazione di cogliere quest’occasione di nuovi fondi d’investimento per far “rinascere” piccolissimi ospedali già chiusi o che dovrebbero essere chiusi da tempo perché non sicuri per i pazienti? Il rischio è reale: è sufficiente collocare ospedali di comunità in queste strutture. Si creerà l’illusione ai cittadini e ai Sindaci che nel 2025/’26 l’ospedale “risuscitato” entrerà in funzione, suscitando così attese irrealizzabili dato che gli Ospedali di Comunità devono essere prevalentemente a gestione infermieristica, per interventi di media/bassa intensità clinica, per degenze di breve durata e prevalentemente finalizzati a “facilitare la transizione dei pazienti dalle strutture ospedaliere per acuti al proprio domicilio”. Rischio evitabile soltanto se le richieste di finanziamento delle Regioni allo Stato saranno accompagnate da programmi realistici di funzionamento delle Case e degli Ospedali di Comunità strettamente connessi all’organizzazione della rete ospedaliera; occorre anche evitare che i tempi giustamente brevi per utilizzare i finanziamenti inducano a una semplice ri-denominazione delle strutture sanitarie: degli attuali poliambulatori in Case della Comunità, delle RSA in Ospedali di Comunità, etc.

Il potenziamento dell’assistenza territoriale non può però attendere il 2026, data entro la quale dovranno essere attivate 1.288 Case della Comunità, 381 Ospedali di Comunità e 602 Centrali operative. Bisogna innanzitutto definire e concludere velocemente il dibattito infinito sul ruolo dei medici di medicina generale (MMG) e dei pediatri di libera scelta (PLS).  Recentemente le Regioni hanno approvato un documento nel quale affermano con chiarezza che la pandemia ha evidenziato ulteriormente che i “profili giuridici dei MMG e dei PLS non sono idonei ad affrontare il cambiamento in atto, anche pensando – in una fase post-pandemica – alla gestione delle multi-cronicità, aumento delle fragilità, programmazione dell’assistenza domiciliare, etc.”. 
 
A conferma di quest’opinione le Regioni hanno ricordato  che “gli accordi nazionali sottoscritti a sostegno delle azioni delle Regioni per fronteggiare la pandemia (intesa sull’effettuazione dei tamponi, delle vaccinazioni, e in alcune regioni sull’utilizzo dei test rapidi) hanno prodotto scarsi risultati.”  Ciononostante non pare che sia imminente e neppure prevedibile una decisione politica regionale/nazionale che trasformi i medici di famiglia da “liberi professionisti” convenzionati a “dipendenti” del SSN.  A questo punto, con pragmatismo, occorre definire gli obiettivi da assegnare ai MMG con remunerazione legata a risultati di salute che devono essere coerenti con il PNRR, soprattutto laddove si afferma che la “Casa della Comunità sarà una struttura fisica in cui opererà un team disciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialisti, infermieri di comunità…”. L’apporto dei MMG alle Case della Comunità non potrà ridursi a due ore alla settimana come sostiene Agenas!

Nell’immediato occorre favorire l’attuazione del piano nazionale della cronicità approvato ben cinque anni fa. Diverse Regioni lo hanno recepito  con apposite deliberazioni  spesso fondate su un esame puntuale dei noti problemi da risolvere: la presa in carico del paziente cronico (che secondo me non può che essere affidata al MMG); l’integrazione delle diverse professionalità per superare l’attuale organizzazione “a silos” che richiede al paziente di diventare una sorta di ufficiale di collegamento tra i diversi servizi sanitari e gli uffici amministrativi; la difficoltà a dare attuazione alla “medicina d’iniziativa” cioè a un’attività proattiva  del medico nei confronti dei suoi pazienti che valuti lo stato della malattia cronica di cui sono affetti  per programmare accertamenti e controlli.

Sono problemi irrisolvibili? No. È sufficiente che si replichi anche per l’assistenza territoriale ciò che è avvenuto per necessità nell’organizzazione dei servizi ospedalieri durante la pandemia: per la prima volta nella storia del SSN l’offerta è stata programmata sulla domanda. Ogni atto di programmazione si è basato sulla realtà epidemiologica sulla quale è stata riparametrata l’offerta. È stata così sconfitta, è stato sottolineato giustamente nel Rapporto OASI del 2021, una delle costanti del SSN per il quale la capacità di offerta era basata sulle dotazioni pregresse il che ha impedito negli anni passati, ad esempio, di dare risposte all’affollamento dei pronto soccorso nei periodi invernali. Nell’attuale emergenza molti professionisti hanno superato gli steccati e lavorato in team multidisciplinari, in reparti e setting diversi da quelli abituali, dimostrando senso di servizio, flessibilità, capacità di adattamento.
 
L’assistenza territoriale non sarebbe più la Cenerentola del SSN se fosse utilizzata adesso la stessa metodologia adottata in questi mesi per l’assistenza ospedaliera.
 
Antonio Saitta
Ex Assessore alla Sanità del Piemonte, già Coordinatore della Commisione Salute delle Regioni

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