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Lunedì 07 FEBBRAIO 2022
Suicidio assistito. Ma la Chiesa Cattolica che posizione ha?

L'interrogativo non è peregrino, soprattutto dopo l'articolo apaprso lo scorso 15 gennaio su Cività Cattolica da Carlo Casalone, Collaboratore nella Sezione scientifica della Pontificia Accademia per la Vita e docente di Teologia morale alla Pontificia Università Gregoriana. Ma una cosa possiamo già dire con certezza: l’atteggiamento di ascolto di Casalone non comporta affatto l’essere favorevoli alla morte volontaria assistita

L’uscita di Carlo Casalone su Civiltà cattolica circa la Proposta di Legge (PdL) sulla morte volontaria medicalmente assistita
Nel quaderno n. 4118 di Civiltà Cattolica del 15 gennaio 2022, Carlo Casalone, collaboratore nella Sezione scientifica della Pontificia Accademia per la Vita e docente di Teologia morale alla Pontificia Università Gregoriana, ha pubblicato un articolo intitolato «La discussione parlamentare sul “suicidio assistito”», in cui esamina la Proposta di Legge già approvata alla Camera nello scorso dicembre e a febbraio in discussione al Senato.
 
Casalone rileva come, sempre a febbraio, la Corte Costituzionale darà anche il parere sull’ammissibilità o meno del Referendum abrogativo di parte dell’art. 579 c.p., che potrebbe portare a rendere permesso il “suicidio libero”, cioè senza condizioni. Si interroga, quindi, «se di questa PdL occorra dare una valutazione complessivamente negativa, con il rischio di favorire la liberalizzazione referendaria dell’omicidio del consenziente, oppure si possa cercare di renderla meno problematica modificandone i termini più dannosi. Tale tolleranza sarebbe motivata dalla funzione di argine di fronte a un eventuale danno più grave».
 
Appellandosi a riflessioni concernenti le “leggi imperfette”, conclude che non è da «escludersi che il sostegno a questa PdL non contrasti con un responsabile perseguimento del bene comune possibile». In sostanza, sembra che per Casalone la Proposta di Legge non sia da bocciare a priori e che se ne possa discutere.
 
Le reazioni all’uscita di Civiltà Cattolica e l’effetto complessivo della proposta di Casalone
La proposta di Casalone ha sollevato un pandemonio tra i cattolici. Alcuni hanno detto che si tratta di un «inaccettabile cedimento» (Il Secolo d’Italia, 14 gennaio), altri che è stata ispirata da chi anche nella Chiesa «tifa per la legge horror del suicidio facile» (la Verità, 14 gennaio). Altri ancora hanno osservato che è ormai «da molto tempo che ci sono due chiese, due religioni e due morali», e che la novità sta ora nel fatto che l’uscita di Civiltà Cattolica, rivista esaminata in Vaticano, mostra che «lo scontro è voluto dall’alto [dal Papa], mentre l’alto dovrebbe essere il punto di riferimento per risolvere gli scontri» (La Nuova Bussola Quotidiana, 17 gennaio)
 
Ben 60 Associazioni cattoliche hanno subito firmato una sorta di Manifesto per dichiararsi non convinte dalle tesi di Casalone, e sorprese per la mancata netta condanna di posizioni che aprono alla “cultura dello scarto” criticata proprio dal Papa stesso (cfr. Il timone, 13 gennaio)
 
In campo laico, invece, la proposta è stata accolta con favore. Si è osservato che, a sorpresa, «si incrina il muro Vaticano» (il Manifesto, 16 gennaio), che essa segna «la svolta della Chiesa» (il Riformista, 14 gennaio), e che si tratta di «una posizione finora inedita» (il Fatto Quotidiano, 15 gennaio) che consente «di aprire il dibattito» sul tema.
 
Sia perché ha gettato lo scompiglio tra i cattolici (soprattutto i più conservatori), sia perché presenta una disponibilità all’ascolto e un’apertura al dialogo coi laici, la proposta di padre Casalone è stata vista come un endorsement alla PdL in discussione. Nessuno l’ha detto esplicitamente, ma è passato il messaggio che, se anche Civiltà Cattolica sostiene la PdL, allora non ci sono ragioni per criticarla più di tanto e può andar bene com’è.
 
L’effetto complessivo dell’uscita di Casalone pare essere simile a quel che già si è avuto con la 219/17, che al Senato è stata subito approvata senza emendamenti dopo che un discorso del Papa nel novembre 2017 era parso essere non contrario al testo in discussione: allora non si fecero modifiche perché la legislatura era in scadenza e non c’era tempo per farle.
 
Ora non sappiamo come andrà a finire ma, resta che la proposta di Casalone è apparsa come qualcosa di totalmente inedito e tale per cui l’aver assunto un atteggiamento di ascolto sia stato di per sé equivalente all’essere favorevole alla morte volontaria assistita.
 
Sono questi i due problemi che qui intendo chiarire:
1) se, quanto e dove la proposta di Casalone sia inedita;
2) se l’atteggiamento di ascolto proposto da Casalone davvero comporti l’essere favorevoli alla morte volontaria assistita.
 
Le premesse di Casalone
È opportuno precisare meglio, sia pure in modo schematico, le tre grandi premesse sottese all’analisi di Casalone. La prima premessa è che da qualche anno (diciamo dall’inizio del secolo) anche in Italia sul tema della morte volontaria il clima culturale è profondamente cambiato. Tutti hanno avuto in qualche modo esperienza di persone care morte “male”, e hanno modificato il tradizionale atteggiamento vitalista, diventando favorevoli alla morte volontaria.
 
L’entusiasmo che c’è stato nell’estate 2021 nella raccolta firme per il Referendum abrogativo ne è una chiara conferma: solo qualche anno fa “eutanasia” era termine impronunciabile, mentre oggi è diventata parola amica. Lo slogan “eutanasia legale” sarebbe apparso improponibile, scandaloso e perdente. Oggi, invece, ha veicolato in poche settimane più del doppio delle firme richieste per il Referendum: segno che l’orientamento culturale è cambiato.
 
Questo è peraltro in linea con quel che è consolidato anche altrove. Casalone rileva che «le condizioni culturali a livello internazionale spingono con forza nella direzione di scenari eticamente più problematici» di quelli per ora presenti in Italia.
La seconda premessa è che la sentenza n. 242/19 della Corte Costituzionale sul caso Antoniani-Cappato ha segnato sul piano etico-giuridico una svolta da cui non si torna più indietro. Con realismo Casalone prende atto che nel fine-vita è capitato qualcosa di analogo a quanto già è accaduto con l’aborto: dopo la sentenza n. 27/1975 della Corte Costituzionale è arrivata la L. 194/78 che ha modificato in modo permanente la situazione normativa sull’inizio-vita.
 
Oggi, prima è arrivata la legge Lenzi n. 219/17 che ha riconosciuto al paziente la facoltà di rifiutare gli interventi sanitari, e poi la Sentenza n. 242/19 della Corte Costituzionale, che ha citato con approvazione la Legge Lenzi per ben 15 volte utilizzandola in alcuni passaggi chiave, così da averla come “costituzionalizzata”.
 
Così facendo ha infranto le aspettative di chi ancora pensava che la Legge 219/17 avesse problemi di costituzionalità: tesi che continua a essere ribadita nel Manifesto sopra ricordato delle 60 Associazioni e che continua a scaldare il cuore di qualche nostalgico dei bei tempi passati: il passo compiuto con la Legge Lenzi è ormai irreversibile (almeno nei tempi “normali” prevedibili).
 
Non solo la Sentenza 242/19 ha confermato la Legge 219/17, ma è anche andata ben oltre. La Legge Lenzi ha affermato il diritto del paziente a rinunciare ai trattamenti (sia a rifiutarli – non iniziare – che a sospenderli), per lasciare alla natura di fare il proprio corso e portare a morte. La Sentenza ha osservato che, se vale «l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite il rifiuto o l’interruzione dei trattamenti sanitari, [… allora] non vi è ragione per la quale [… non si debba accogliere la] richiesta del malato di un aiuto [attivo] che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».
 
La formulazione non è immediata, ma il principio generale è chiaro: se è lecito “lasciar morire” (come previsto dalla L. 219/17) allora, ceteris paribus, è lecito anche “aiutare a morire”. È per questo che la Sentenza ammette il suicidio medicalmente assistito in presenza di quattro condizioni: 1) che la persona sia capace di intendere e volere, e in grado di avanzare la richiesta, 2) che abbia una patologia irreversibile, 3) che tale patologia sia fonte di sofferenze insopportabili; 4), che la persona sia tenuta in vita da un sostegno vitale artificiale.
 
La terza premessa è che la mancata approvazione della legge assesterebbe «un ulteriore colpo alla credibilità delle istituzioni, in un momento già critico» e aprirebbe la strada al Referendum abrogativo di parte dell’art. 579 c.p., col risultato che un eventuale suo successo consentirebbe a una persona sana di richiedere assistenza al suicidio.
 
Oggi si tratta di scegliere non tra il divieto assoluto di suicidio assistito (come vuole il principio etico della Chiesa) e una PdL che ammette il suicidio assistito in ben precise condizioni, ma è tra la PdL in esame e la situazione post-Referendum che permette il suicidio “libero”. È sulla scorta di questo scenario concreto che Casalone conclude che non è da «escludersi che il sostegno a questa PdL non contrasti con un responsabile perseguimento del bene comune possibile» cioè che la PdL potrebbe anche non essere da bocciare: conclusione che è parsa essere come qualcosa di totalmente inedito e mai visto prima. È questo il primo punto da esaminare.
 
Quanto la proposta di Casalone è “inedita” e dove lo è
Si è detto che la proposta di Casalone segna una «svolta» e che presenta una posizione «finora inedita». Ma è davvero una novità assoluta? Un aspetto nuovo sta nel fatto che sul tema etico del fine-vita Casalone privilegia la “Chiesa in ascolto” alla più nota “Chiesa docens” cui ci avevano abituati gli ultimi Papi (Giovanni Paolo II e Benedetto xvi).
 
Ma da sempre la Chiesa è Mater et Magistra, dove le due funzioni sono complementari e non antitetiche. In alcune fasi della storia si fa prevalere la funzione magisteriale con l’atteggiamento di chi si mette in cattedra e dice: “questo no, quest’altro sì!”, mentre in altre fasi si dà maggior spazio alla funzione materna e prevale l’atteggiamento di ascolto.
 
Citando Papa Francesco, Casalone riconosce che oggi temi come questi del fine-vita «vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni, anche normative, il più possibile condivise […tenendo] conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza».
 
Altro aspetto di novità è che Casalone non si mette a innalzare muri o barricate, ma opti per la discussione pacata. Ma anche questa non è una novità assoluta: già in altre occasioni la Chiesa ha preferito la collaborazione allo scontro e alla battaglia. Quando i bersaglieri sono entrati a Porta Pia, Pio IX ha lanciato il Non possumus, ha eretto steccati e lanciato anatemi. Ma poi la Chiesa ha capito che quell’atteggiamento era poco produttivo, se non controproducente: è venuta a più miti consigli e si è messa in ascolto, iniziando anche a collaborare con lo Stato italiano tanto da venire a accettare e a promuovere la “democrazia cristiana” (locuzione che prima appariva ossimorica).
 
Inedita non è la proposta in sé dell’atteggiamento di ascolto, ma è l’aver proposto con grande rapidità e prontezza tale atteggiamento sul tema etico del fine-vita. Ci sono voluti diversi decenni perché la Chiesa capisse che, dopo Porta Pia, i bersaglieri non sarebbero più andati via da Roma, e che la Rivoluzione in ambito politico era ormai diventata irreversibile. Ora a Casalone sono bastati un paio d’anni per capire che la sentenza n. 242/19 è, in campo etico, qualcosa di analogo a ciò che è stata la breccia di Porta Pia in campo politico: la Rivoluzione in ambito etico è ormai avvenuta e non ci si può più illudere di tornare alla situazione ex-ante. Sulla liceità della morte volontaria medicalmente assistita non si cambia più (almeno nei tempi “normali” e prevedibili).
 
Si può dire che, in un senso, padre Casalone è per l’etica ciò che don Sturzo è stato per la politica: come Sturzo ha capito che dopo la Rivoluzione politica (il Risorgimento) i cattolici dovevano scendere nell’agone politico accettando la democrazia, così Casalone ha capito che oggi, dopo la Rivoluzione morale (la diffusione della bioetica), serve a poco continuare a insistere sul principio etico della sacralità della vita, e che è meglio mettersi in ascolto e vedere quel che si può fare per perseguire il «bene comune possibile».
 
A questo punto, però, per chiarire dove va a parare il discorso di Casalone bisogna chiarire il contenuto di questo «bene comune possibile» da perseguire. Al riguardo due sono le opzioni: si può dire che tale bene è dato a-priori (come nell’etica della sacralità della vita) oppure che è individuato da un’analisi capace di chiarire le sfide etiche e concettuali oggi emergenti.
 
Il chiarimento del contenuto di tale «bene comune possibile» ci porta anche a dare una risposta all’altro problema qui in esame: se l’assumere un atteggiamento di ascolto comporti di per sé l’essere favorevole alla morte volontaria assistita oppure no. Diventa infatti chiaro che ove tale bene fosse dato a-priori, l’atteggiamento di ascolto serve più per conoscere le esigenze della gente al fine di cercare poi di indirizzarle sui binari prefissati a-priori che per favorire la nuova pratica. È giunto il tempo di procedere all’analisi delle nuove sfide etico-concettuali che si presentano nel fine-vita per vedere se essa offre elementi per individuare un «bene comune possibile» tale da prevedere la morte volontaria assistita.
 
Un’analisi dei problemi posti dalla nuova categoria del fine-vita per individuare il “bene comune possibile” nel nuovo territorio
Casalone in qualche modo prende atto che anche in Italia (come nel resto del mondo occidentale) negli ultimi anni c’è stata una Rivoluzione morale. Come dice G. W. F. Hegel, «tutti i cambiamenti culturali si riducono alla fine a un cambiamento di categorie. Tutte le rivoluzioni, sia nelle scienze che nel mondo storico, capitano semplicemente perché lo spirito ha cambiato le proprie categorie».
 
Val forse la pena ricordare che la modifica o il cambio di una “categoria” comporta un nuovo modo di guardare il mondo e di classificare la realtà. Per dare un esempio di modi diversi di categorizzare la realtà, Isaia Berlin ricorda (cfr Le radici del Romanticismo) che nella cultura greca la natura era retta da rapporti impersonali, mentre nella cultura ebraica obbediva ai comandi di dio, così che monti e fiumi saltellavano come agnelli. Nell’esempio di Berlin il diverso modo di categorizzare rendeva incommensurabili i paradigmi, che risultavano letteralmente incomprensibili ai rispettivi interlocutori. In altri casi la diversa classificazione ha minore impatto, come per esempio quando riguarda il modo di categorizzare i bambini, i generi, o altro ancora. Resta che quello di categoria costituisce un cambiamento importante entro un quadro concettuale (o paradigma), cambiamento che comporta una trasformazione dei relativi atteggiamenti e dei valori.
 
Se è vero (come sembra) che negli ultimi anni si è verificata una rivoluzione morale, si tratta di individuare quali siano i corrispettivi cambiamenti categoriali. Fino a qualche decennio fa in etica medica c’erano solo due categorie: la vita e la morte. A queste se ne sono ora aggiunte due: inizio-vita e fine-vita. Non considero qui l’inizio-vita, ma rilevo che oltre al binomio tradizionale vita/morte c’è oggi almeno un’altra categoria: il “fine-vita”, nuovo territorio a mezzo tra la vita e la morte.
 
Quando il fine-vita non c’era, si passava direttamente dalla vita alla morte, e morire era come tuffarsi dal dirupo nel mare. In un attimo, o in poco tempo, tutto finisce: si passa dalla condizione terrestre in cui la qualità della vita è “complessivamente positiva”, cioè di segno + [più], alla morte in cui si è sullo “zero”, ossia assenza di ogni qualità. Sul dirupo la persona dotata di autobiografia, consapevolezza di sé e orizzonti aperti, vive nella condizione terrestre che è caratterizzata dall’esperienza degli alti e dei bassi dell’esistenza. I momenti difficili e dolorosi sono molti e si alternano a qualche attimo gioioso, ma finché l’orizzonte è aperto si mantiene la possibilità dell’alternanza, e nel complesso la vita è buona (di segno più) e la morte è il peggiore dei mali. Di qui il divieto assoluto di morte volontaria sancito dall’etica della sacralità della vita e l’impegno a sostenere sempre la vita con le terapie e altri mezzi proprio dell’etica vitalista.
 
Se tra la vita e la morte (tra il dirupo e il mare) affiora una sorta di bagnasciuga, il nuovo territorio chiamato “fine-vita”, allora cambia l’intero quadro concettuale. Dato che è emerso da poco, non sappiamo ancora bene come sia la vita in questo nuovo territorio: siamo nella fase di esplorazione e non abbiamo certezze adamantine, ma qualche punto fermo già lo abbiamo acquisito.
 
Abbiamo visto che insistere nel voler prolungare la vita il più possibile può causare “accanimento terapeutico” cioè una situazione solo negativa che è peggiore della morte, in quanto in essa l’interessato soffre e già sappiamo che non c’è più la possibilità di tornare a esperienze di segno positivo. Quella dell’accanimento terapeutico è una figura di condizione infernale, ossia la situazione in cui la qualità della vita è sempre negativa (o zero) e si sa che persa per sempre è la possibilità di tornare al segno positivo. Altra figura di condizione infernale è quella della tortura, situazione in cui il malcapitato viene tenuto in vita tra tormenti e supplizi.
 
Non sappiamo se nel fine-vita il progressivo restringimento dell’apertura dell’orizzonte caratteristica della condizione terrestre o altri fattori (anche naturali) facciano sì che sul bagnasciuga si creino altre figure finora inedite di condizione infernale. Resta che tra la vita e la morte c’è ora il fine-vita: nuovo territorio in cui è possibile si crei la condizione infernale, che – non dimentichiamolo – è peggiore della morte.
 
In termini generali: nella condizione terrestre la vita (il vivere) è la condizione di ogni possibilità, cioè tanto di quelle che portano al positivo (il “più”) quanto a quelle che portano al negativo (il “meno”). Quando si passa nella situazione infernale viene persa per sempre la possibilità delle condizioni positive e rimane solamente l’attualità delle condizioni negative. Ecco perché la condizione infernale è peggiore della morte, la quale comporta la fine di ogni esperienza (lo “zero”: assenza sia di “più” sia di “meni”). Nel nuovo quadro concettuale la morte resta una perdita rispetto alla (buona) condizione terrena, ma è un vantaggio rispetto alla (pessima) condizione infernale.
 
Quando c’erano solo vita e morte, il dovere morale primo era “non uccidere!”: in ambito sanitario la priorità era che la persona non morisse, perché evitare la morte significava farla tornare alla vita (alla condizione terrestre). Ora che c’è anche il fine-vita, però, la situazione è cambiata, perché evitare che una persona muoia può significare farla finire nella situazione infernale, e non più farla tornare alla condizione terrestre. Per questo nel nuovo territorio del fine-vita la priorità etica diventa evitare la condizione infernale (in cui si è vivi, ma per soffrire e basta).
 
L’etica si arricchisce così di un nuovo compito e di un nuovo valore, che peraltro è già stato prontamente recepito dal nostro ordinamento. Da una parte, la L. 219/17 ha previsto il diritto di non-iniziare/sospendere i trattamenti sanitari per evitare che l’interessato entri nella condizione infernale. Dall’altra la sentenza n. 242/19 della Corte Costituzionale ha stabilito che se è lecito sospendere i trattamenti di sostegno vitale per evitare la condizione infernale, allora alle condizioni precisate è lecito anche aiutare (attivamente) a morire per conseguire lo stesso obiettivo.
 
L’analisi svolta ha mostrato che nel fine-vita è emersa una nuova priorità etica: “evitare la situazione infernale”, che diventa il contenuto del «bene comune possibile» che oggi è da perseguire: contenuto alternativo a quello proposto dall’etica tradizionale. Sulla scorta di questo risultato possiamo ora vedere dove miri l’atteggiamento di ascolto proposto da Casalone, cioè se esso comporti l’essere favorevole alla morte volontaria assistita oppure no. Per saperlo non ci resta che esaminare quel che Casalone dice della Proposta di Legge in discussione.
 
La lettura di Casalone della Proposta di Legge
Con delicatezza, ma con altrettanta fermezza, Casalone dichiara che la PdL in discussione diverge «dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio che il Magistero della Chiesa ha ribadito anche in recenti documenti», cioè nella Lettera Samaritanus Bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede (22 settembre 2020). Ribadisce, quindi, l’adesione alla prospettiva tradizionale della sacralità della vita che neanche considera la presenza della nuova categoria del fine-vita.
 
Resta però vero che Casalone non dà affatto battaglia sul principio astratto e generale della liceità/illiceità del suicidio, ma anzi al riguardo assume un atteggiamento di ascolto e di dialogo. Per questo, la sua proposta è stata subito vista come di per sé favorevole alla morte volontaria assistita.
 
È davvero così? È vero che la sola disponibilità all’ascolto e al dialogo di per sé è indice di favore alla morte volontaria assistita? Per chiarire il punto esaminiamo in modo più dettagliato ciò che dice Casalone sulla PdL.
 
In primis rileva che «fatto salvo il nucleo giuridico-costituzionale della sentenza sull’art. 580 […] il Parlamento non è vincolato dai pronunciamenti della Corte» circa gli altri aspetti della problematica, sui quali «il Parlamento può riconoscere nella sentenza un indicatore della convergenza raggiungibile tra le diverse posizioni, assumendone le istanze con una propria decisione». In altre parole, è solo sull’aspetto specifico dell’art. 580 c.p. su cui si è pronunciata la Corte Costituzionale che il Parlamento è vincolato a non discostarsi dal mandato, mentre sui molti altri temi riguardanti la pratica restano ampi margini di scelta.
 
Ciò significa che, oltre il nucleo definito dalla Corte, resta aperto un ampio spazio di scelta la cui precisazione consente di capire se il contenuto del «bene comune possibile» da perseguire è quello tradizionale (evitare la morte) o invece è quello nuovo sopra individuato (evitare la condizione infernale) e quindi anche quale sia l’obiettivo cui tende la disponibilità all’ascolto. La PdL in discussione ha già fatto alcune di queste scelte, per cui la valutazione datane da Casalone offre alcune prime indicazioni al riguardo.
 
La valutazione di Casalone della PdL com’è ora
Una prima scelta già fatta dalla PdL in discussione al Senato, riguarda la restrizione dell’accesso alla morte volontaria assistita. Mentre per la sentenza n. 242/19 della Corte per l’accesso basta la presenza di una «patologia irreversibile», Casalone rileva che nella PdL quest’ultima espressione «viene restrittivamente qualificata come “a prognosi infausta”», ponendo così un ulteriore vincolo. È vero che subito dopo la PdL precisa che l’accesso vale anche per chi è affetto da «una condizione clinica irreversibile», perché altrimenti sarebbero stati esclusi casi come quello di dj Fabo (che non aveva “prognosi infausta”).
 
Ma l’iniziale restrizione, unita all’altra clausola, fa sì che l’attuale formulazione del testo di legge – osserva Casalone – escluda le situazioni di «polipatologia» in cui «la sofferenza non deriva da una specifica malattia, come richiesto dalla legge, ma da una combinazione di diverse e sfumate disfunzioni», che sono frequenti negli anziani e che possono portare alla «stanchezza di vivere», ragione questa che per esempio in Belgio porta a legittimare l’assistenza al suicidio (o l’accesso all’eutanasia).
 
Quella rilevata è una restrizione molto significativa posta dalla PdL rispetto allo spazio di scelta lasciato aperto dalla Corte, la quale ha previsto le sofferenze fisiche o psicologiche tra le condizioni di accesso alla pratica. Infatti, nel fine-vita la «stanchezza di vivere» o l’«existential suffering» sono fattori che possono far finire la persona nella condizione infernale: escluderle a-priori è un grave vulnus all’intera pratica in esame.
 
Che Casalone approvi con convinzione questa restrizione è rivelatore del fatto che per lui il «bene comune possibile» sta nel restringere il più possibile l’accesso alla morte volontaria assistita. Il contenuto di questo bene è dato a-priori, e l’obiettivo cui mira l’atteggiamento di ascolto è diminuire a prescindere il numero delle morti volontarie assistite. Per questo Casalone subito scarta a-priori, cioè senza neanche prenderla in considerazione, l’esperienza del Belgio, che invece (senza voler qui entrare nel merito) potrebbe meritare attenzione.
 
Un’altra scelta già fatta dalla PdL riguarda le cure palliative: mentre la Sentenza n. 242/19 non si sofferma più di tanto sul tema, l’art. 3.1 della PdL specifica che l’accesso alla morte volontaria medicalmente assistita è consentito alla persona che «sia stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate».
 
Non si vuole qui sottovalutare il ruolo positivo delle cure palliative, ma il proporle come “quasi obbligatorie” per poi dire che possono essere anche «esplicitamente rifiutate» è creare una complicazione procedurale che ostacola il possibile accesso alla morte volontaria assistita. Le cure palliative non sono l’alternativa che porta a evitare la morte volontaria, ma sono complementari a essa: a volte bastano, e va bene. Altre volte preparano alla morte volontaria, e va bene anche questo. Che Casalone valuti con favore anche quest’appesantimento procedurale previsto dalla PdL è ulteriore elemento rivelatore del fatto che apprezza ogni misura presa per scoraggiare l’accesso alla pratica della morte volontaria assistita: segno che il «bene comune possibile» da lui perseguito è dato a-priori (sta nell’evitare la morte volontaria assistita).
 
La terza scelta già presa dalla PdL riguarda l’obiezione di coscienza dell’operatore sanitario. Mentre la Sentenza 242/19 si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio, e affida «alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato», ora l’art. 6 della PdL introduce esplicitamente l’obiezione di coscienza ricalcando il modello già utilizzato dalla L. 194/78 sull’aborto.
 
L’idea di introdurre l’obiezione di coscienza è un’altra forte restrizione dello spazio di scelta lasciato aperto dalla Corte. La previsione dell’obiezione non solo può rendere in pratica più difficoltoso l’accesso alla morte volontaria assistita, ma sul piano teorico equivale a una riabilitazione dell’etica della sacralità della vita che condanna ogni forma di assistenza alla morte e neanche riconosce la nuova categoria del fine-vita con la possibilità della condizione infernale. L’apprezzamento di Casalone di questa scelta rivela una volta di più che l’atteggiamento di ascolto da lui proposto mira a restringere il più possibile l’accesso alla morte volontaria assistita e a riaffermare le tradizionali soluzioni date a-priori.
 
Come Casalone pensa di modificare i “termini più dannosi” della PdL
Casalone ritiene anche sia ancora possibile rendere la PdL «meno problematica modificandone i termini più dannosi», e al riguardo avanza precise proposte che sono di grande interesse per il compito in esame.
 
La prima di queste modifiche riguarda una più chiara precisazione dei «trattamenti di sostegno vitale» richiesti per poter accedere alla morte volontaria medicalmente assistita. Nella sentenza 242/19 pareva che questi fossero solo quelli “essenziali” come ventilazione, nutrizione e idratazione. Mentre ora, osserva Casalone, sono entrati nel novero anche altri «dispositivi e manovre che «svolgono un ruolo sussidiario» (come pacemaker cardiaco, catetere vescicale ed evacuazione manuale)».
 
Per evitare che si allarghino ulteriormente queste condizioni, Casalone propone che il testo di legge definisca una volta per tutte i trattamenti vitali previsti e limiti l’accesso alla morte volontaria solo in presenza di questi: altra proposta che in modo a-priori tende a restringere le condizioni di accesso alla morte volontaria assistita.
 
Nella stessa direzione va anche la seconda proposta di modifica dei «termini più dannosi» della Pdl, riguardante la modifica del titolo stesso della legge. Attualmente è «morte volontaria medicalmente assistita». Casalone osserva che questa dizione non esclude che in futuro si allarghi l’assistenza fino a prevedere l’aiuto anche quando il consenso non è più attuale, con un ampliamento all’eutanasia: per evitare questa possibilità Casalone propone «l’impiego di un’espressione come “assistenza al suicidio”» così da congelare la situazione al presente. Anche questa proposta va nella direzione già rilevata del restringimento dell’accesso.
 
La terza e ultima proposta di modifica riguarda un alleggerimento del rilievo ora assegnato all’autodeterminazione (e alla correlata concezione individualistica) a favore dell’idea relazionale di persona secondo la quale ciascuno di noi è inserito «in un contesto di relazioni che ci rende solidali gli uni con gli altri», per cui non è l’informazione (conoscenza) a fondare il consenso informato, ma è la “fiducia”, ossia quell’«atteggiamento fondamentale verso cose, persone, istituzioni, senza il quale non è possibile accedere al senso che orienta l’esistenza e l’agire».
 
È la fiducia come atteggiamento che ci rivela che il fatto che la vita sia ricevuta è il «momento originario indisponibile in cui si radica e prende senso ogni ulteriore discorso sulla disponibilità della vita» e sulla vita stessa. A dire di Casalone il passaggio dal consenso-conoscenza al consenso-fiducia è importante, perché «l’esperienza dei Paesi in cui è consentita la morte (medicalmente) assistita [sulla base del consenso-conoscenza] mostra che la platea delle persone ammesse [alla morte volontaria] tende a dilatarsi: ai pazienti adulti competenti si aggiungono pazienti in cui la capacità decisionale è compromessa, talvolta gravemente».
 
La proposta di dare più peso alla fiducia che all’autodeterminazione meriterebbe un approfondimento che qui non è possibile fare. È vero che la nozione di fiducia gioca un ruolo cruciale nella vita personale e sociale, ma non è detto né che essa sia la chiave per capire il senso dell’esistenza né che una sua messa al centro porti necessariamente nella direzione auspicata da Casalone. Il discorso sul punto è articolato: c’è una fiducia che nasce dalla certezza di essere correttamente informati (come previsto dalla Legge Lenzi), e comunque questa modifica trasforma l’intero quadro concettuale e bisogna poi vedere com’è costruito prima di valutare la questione.
 
Non potendo qui esaminare il tema, rilevo come la proposta sembri essere in linea con le precedenti e abbia come obiettivo il limitare che si dilati il numero delle persone ammesse alla morte volontaria assistita: abbiamo così acquisito elementi sufficienti per una valutazione complessiva della proposta di Casalone.
 
L’atteggiamento di ascolto di Casalone non comporta affatto l’essere favorevoli alla morte volontaria assistita
L’analisi fatta ha rilevato che Casalone è possibilista sulla PdL perché il testo in discussione al Senato già ora restringe in modo significativo l’accesso alla morte volontaria assistita rispetto a quanto previsto dalla sentenza 242/19. Molti spazi di scelta sono già stati usati per limitare molto la pratica. Casalone propone inoltre ulteriori modifiche tese a restringere ancora di più le possibilità di accesso. Se queste modifiche fossero accolte, alla fine la situazione si discosterebbe di poco da quella vigente prima della sentenza. Lungi dall’essere segno di favore alla morte volontaria assistita, l’atteggiamento di ascolto e di dialogo ha come risultato una sorta di svuotamento pratico del significato del principio generale circa la liceità della morte volontaria.
 
Nel concreto le difficoltà di accesso alla nuova pratica crescono così tanto che alla fine le persone rinunciano: nella pratica quotidiana si viene a far rientrare dalla finestra quel divieto di morte volontaria assistita che la sentenza 242/19 ha in linea generale cacciato dalla porta. Più che di un «inaccettabile cedimento», si deve dire che la proposta di Casalone è un modo prudente di contrastare la pratica della morte volontaria assistita e di riproporre gli antichi valori.
 
Il limite etico-filosofico di Casalone sta nel continuare a ragionare sulla scorta dell’etica della sacralità della vita ancorata al solo binomio vita/morte, che non riconosce né la nuova categoria del fine-vita né la nuova priorità etica di evitare la condizione infernale (peggiore della morte). In questa prospettiva tradizionale la morte resta il peggiore dei mali, e ciò giustifica sia l’impegno di limitare al massimo l’accesso alla morte volontaria assistita, sia l’idea che un eventuale aumento del numero di queste morti è di per sé frutto (perverso) del pendio scivoloso che ci farebbe precipitare nel baratro della barbarie nichilista.
 
Al contrario, non appena si riconosce la presenza della nuova categoria del fine-vita e del nuovo prioritario compito etico di evitare la condizione infernale, si capisce anche che, un eventuale aumento del numero di morti volontarie assistite di per sé non è indice di scivolamenti nichilisti, ma della positiva attenzione posta per evitare un corrispondente reale aumento di condizioni infernali. In questo senso, più che un “precipitare nel baratro”, un eventuale aumento del numero di morti volontarie assistite va visto come un “salire alla vetta”.
 
Non sappiamo ancora se quando si è nel fine-vita la condizione terrena evolverà nella morte (naturale, come avveniva un tempo) o nella condizione infernale. Non ci sono risposte a-priori, perché non sappiamo quali patologie diventeranno prevalenti, quali interventi saranno disponibili, quali risorse umane avremo per affrontarle, etc.. Sappiamo, però, che quella infernale è condizione peggiore della morte, per cui dobbiamo essere pronti a evitarla. È un po’ come capita con la temperatura, dove l’obiettivo è star bene e non avere né caldo né freddo. Ascoltiamo le previsioni del tempo e, a seconda se è caldo o freddo, decidiamo che abiti indossare (se pesanti o leggeri). Così nel fine-vita, dove l’obiettivo è evitare la condizione infernale: ascoltiamo le esigenze concrete della persona, e con lei decidiamo il da farsi per conseguire lo scopo.
 
Una buona legge sul fine-vita tesa a perseguire il «bene comune possibile» in tale ambito non deve partire ponendo restringimenti a-priori all’accesso alla morte volontaria assistita (come se ancora valesse la sacralità della vita), ma deve essere leggera, dinamica e aperta alle soluzioni più diverse al fine di evitare al massimo la condizione infernale che, non dimentichiamolo, è peggiore della morte. Il fallimento della normativa non sta in un eventuale aumento del numero di morti volontarie assistite, ma nel non riuscire a evitare le condizioni infernali.
 
Maurizio Mori
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica

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